le saline di marsala in provincia di trapani .
paesaggio stupendo io abitando a marsala lo osservo molto spesso e ogni sera al tramonto ne rimango affascinata!!
Visualizzazioni totali
lunedì 1 aprile 2013
La baronessa di Carini
La leggenda narra la morte di Donna Laura Lanza che a soli 14 anni andò sposa, per volere del padre, al barone di Carini. Ben presto, delusa dalla vita matrimoniale e dai continui abbandoni del marito impegnato nella cura della sua proprietà, la baronessa si innamora di Ludovico Vernagallo, e ne diventa l'amante. Scoperta dal marito e dal padre, Laura viene uccisa insieme a Ludovico. La stanza dell'assassinio, situata nell'ala ovest del castello, è crollata completamente e si narra che su una parete vi fosse l'impronta insanguinata della baronessa.
Adesso tutto ciò che resta della leggenda sono: il fantasma di Laura, che si dice si aggiri ancora senza pace nel castello e un enigma particolare... in una delle metope del torrione principale, proprio in direzione del luogo ove sorgeva l'ala ovest, è scolpita... una manina!!!
Fuori dalla leggenda si può affermare che Laura era una ragazza che poteva dar lustro sia ai La Grua - Talamanca che ai Vernagallo, ma i La Grua bruciano i tempi la chiedono in sposa per il figlio Vincenzo. All'età' di quattordici anni, il 21 dicembre 1543 viene celebrato il matrimonio. Non era possibile farsi precedere dai Vernagallo, anche se era nota a tutti la grande tenerezza di Laura per Ludovico. Tuttavia il fatto, almeno in apparenza, non turbò l'amicizia fra le famiglie. Infatti, nonostante tutto, Ludovico era considerato come uno di famiglia.
A poco a poco però, gelosie e vecchi rancori emersero fra i La Grua, Lanza e Vernagallo, ed ecco le insinuazioni, le calunnie ed infine il tragico evento.
Nella realtà, esistono dei documenti dai quali risulta che il Vicerè di Sicilia, informa, all'epoca, la Corte di Spagna che Cesare Lanza, barone di Trabia e conte di Mussomeli, ha ucciso la figlia Laura e Ludovico Vernagallo. Questo documento avvalora l'atto di morte della baronessa, redatto il 4 dicembre 1563 e che si conserva nell'archivio della Chiesa Madre di Carini insieme a quello di Ludovico Vernagallo. Non esiste, invece, alcuna prova che tra Laura Lanza e Ludovico Vernagallo ci fosse qualcosa di diverso dall'amicizia. Quindi Cesare Lanza di Trabia, complice il genero, uccise per leso onore della famiglia, la figlia Laura e fece uccidere da un sicario Ludovico Vernagallo.La leggenda racconta che fu un frate del vicino convento, infatti, ad informare il padre ed il marito della sposa, e questi, assieme, freddamente meditarono e prepararono l’assassinio.
Fu preparato l’agguato e quando l’ignobile spia si accorse che i due amanti stavano insieme, avvertì don Cesare Lanza, che corse nella stessa notte a Carini, accompagnato da una sua compagnia di cavalieri, e fatto circondare il castello, per evitare qualsiasi fuga dell’amante di sua figlia, vi irruppe all’improvviso, e sorpresili a letto, li uccise.
L’atto di morte di Laura Lanza e Lodovico Vernagallo, trascritto nei registri della chiesa Madre di Carini, reca la data del 4 dicembre 1563. Nessun funerale fu celebrato per i due amanti, e la notizia della loro morte, o per paura o per rispetto, fu tenuta segreta. La cronaca del tempo lo registrò con estrema cautela senza fare i nomi degli uccisori, scrive Luigi Maniscalco Basile, senza dire nemmeno che cosa era accaduto, mentre il Paruta riporta il fatto nel suo diario, così: "sabato a 4 dicembre. Successe il caso della signora di Carini". Ma nonostante la riservatezza d’obbligo, la notizia si divulgò lo stesso ed il "caso" della baronessa di Carini divenne di dominio pubblico.Il Salomone Marino, nel secolo scorso, raccolse da un esaltatore questi versi in cui si fa rivivere l’efferatezza del delitto:"Vju viniri ‘na cavalleria
chistu è mè patri chi veni pri mia!
Signuri patri, chi vinistivu a fari?
Signura figghia, vi vegnu a ‘mmazzari.
Signuri patri, aspettatimi un pocu
Quantu mi chiamu lu me cunfissuri.
- Habi tant’anni ch’un t’ha confissatu,
ed ora vai circannu cunfissuri?
E, comu dici st’amari palori,
tira la spata e cassaci lu cori;
tira cumpagnu miu, nun la sgarràri,
l’appressu corpu chi cci hai di tirari!
Lu primu corpu la donna cadìu,
l’appressu corpu la donna muriu."Il viceré, appena venuto alla conoscenza dei delitti, immediatamente adottò per don Cesare Lanza ed il barone di Carini i provvedimenti previsti dalla legge; furono banditi ed i loro beni vennero sequestrati. Don Cesare Lanza ancora una volta si rivolse a re Filippo II; spiegò i motivi che lo avevano portato assieme al genero a trucidare i due amanti ed avvalendosi delle norme, in quel tempo in vigore, sulla flagranza dell’adulterio, chiese il perdono che fu accordato. Liberato da ogni molestia, don Cesare Lanza riebbe i suoi beni; ancora una volta la Giustizia non lo aveva neanche toccato e giustamente, come scrisse il Dentici, "l’aristocrazia del tempo era al di sopra delle leggi e della giustizia". Anche il barone di Carini, marito di Laura, fu assolto con formula piena, e visse indebitato sino alla sua morte, dopo avere portato al Monte dei Pegni gli ultimi gioielli della sua famiglia.
La leggenda del "vascellazzu"
Quando Federico II fece alloggiare i suoi cavalli nel convento del Carmine, trasformando in stalla la chiesa in cui era il Santo era sepolto, un male misterioso portò alla morte i cavalli ed i soldati. Aprendo la tomba di Sant'Alberto, questi fu trovato in ginocchio per chiedere la punizione per i profanatori.fonte: sfruttiamo.splinder.com
sabucina
La
zona archeologica di Sabucina e' una delle localita' siciliane piu'
interessanti. Tale localita' rientra nella provincia di Caltanissetta.
Il
centro d'origine greco-sicula si sviluppa nella montagna omonima ed in una
posizione di dominio della vallata del fiume Salso.
Il
centro indigeno originario ha subito varie fasi di distruzione e di conseguente
nuovo sviluppo. Da ricordare, infatti, e' lo sviluppo del nuovo centro avvenuto
tra l'ottavo ed il settimo secolo A.C. ed una nuova fase risalente al V secolo
A. C. durante la quale la zona subi' l'influenza ellenica. Il centro fu
definitivamente abbandonato alla fine del V secolo A. C..
I
reperti archeologici presenti nella zona sono innumerevoli, a partire dalla
parte denominata "Sabucina Bassa" presente ai piedi della montagna omonima e
comprendente tombe a grotticella risalenti alla prima eta' del
bronzo.
Una
successiva parte della zona raggruppa i resti di un centro indigeno che si e'
sviluppato tra il XII ed il X secolo A. C..
Tra
gli altri reperti preservati nella zona occorre ricordare, inoltre, quelli
riguardanti una capanna-santuario e l'Antiquarium che preserva alcuni reperti
delle varie necropoli della zona come il "Sacello di Sabucina" - un modello in
terracotta risalente al VI secolo A.C.
Nella
zona adiacente il Monte Sabucina c'e' il Monte Capodarso che offre la
possibilita' d'ammirare altri interessanti reperti risalenti ad un abitato
preistorico che subi' una successiva fase di ellenizzazione. Tali resti sono un
muro di fortificazione, delle necropoli e dei resti in ceramica ed in
terracotta, elementi che esemplificano quel che era l'antico centro
sicano.
sabato 30 marzo 2013
La Riserva Naturale di Capo Gallo
Capo Gallo è un promontorio roccioso che si
specchia nel mare di Palermo, separando i golfi di Mondello e
Sferracavallo, frapponendosi a Monte Billiemi a sud e a
Monte Pellegrino ad est e costituendo la chiusura naturale del gruppo
di monti che delimitano la Conca d'Oro. La loro mole ripara Palermo e le borgate
limitrofe dai fastidiosi venti di scirocco, lasciando solo due accessi al mare:
a ponente la 'porta' di Sferracavallo ed a levante quella di Mondello.
Capo Gallo è sovrastato dal monte omonimo, una formazione carsica formatasi nel periodo Mesozoico (225 milioni di anni fa) e nell'Eocene medio (54 e 33,7 milioni di anni fa) che presenta numerose manifestazioni erosive superficiali e parecchie cavità nel sottosuolo o grotte. Il versante settentrionale del monte è quello che mantiene le caratteristiche naturali meglio conservate, mentre quello meridionale si presenta con un suolo pietroso, brullo e steppico. La Riserva Naturale, che ha un estensione di 586 ettari, è stata istituita con Decreto dell'Assessorato Regionale Territorio e Ambiente n.970/91 ed è gestita dall'Azienda Foreste Demaniali della Regione Siciliana che l'ha salvata da uno stato d'incuria e abbandono e l'ha resa fruibile al pubblico. Il territorio è caratterizzato dalle biodiversità e al suo interno coesistono micromondi naturali dal fascino unico e diverse specie endemiche esclusive di questo territorio, tanto che l'area è stata inserita nella lista dei Sic (Siti d'importanza comunitaria).
La Riserva può essere visitata ogni giorno a piedi attraverso i percorsi segnati nelle apposite tabelle. Si può accedere all'area mediante tre punti: il primo sul versante orientale attraverso una proprietà privata accanto alla Torre di Mondello; il secondo dal versante opposto sempre attraverso una stradella privata che inizia in contrada Barcarella di Sferracavallo; il terzo sul versante meridionale, dal quale attraverso una strada comunale che inizia alle spalle di Partanna Mondello e costeggia Pizzo Sella si può arrivare sino a quota 527 m. s.l.m. al cosiddetto Semaforo, interessante costruzione militare di avvistamento.
Proprio sulle cime del monte si trova l'habitat ideale per i piccoli uccelli tra cui le cincie, i fringillidi, il merlo, l'occhiocotto e il colombaccio. Di notte sulle pareti rocciose è possibile avvistare il barbagianni e l'allocco più diffuso tra la vegetazione. Nonostante la forte antropizzazione alla base del monte, vive anche la volpe, il più grosso mammifero predatore superstite in Sicilia. Sul Monte Gallo, si possono osservare molte specie interessanti in transito nelle stagioni di passo come la cicogna bianca, il falco pecchiaiolo, il coloratissimo gruccione ed il cuculo. Di grande interesse sono le numerose specie endemiche o rare quali: Limonio di Palermo (Limonium panormitanum) specie molto rara esclusiva di Capo Gallo e Monte Pellegrino, Allium lehmannii, Centaurea ucria, Scabiosa limonifolia, Brassica rupestris, Hieracium lucidum, Lithodora rosmarifolia ecc. Si possono anche osservare alcune orchidee selvatiche le più interessanti delle quali sono l'Ofride verde-bruna siciliana, l'Ofride verde-bruna palermitana e l'Ofride di Branciforti.
Le zone sommerse
Lo sviluppo costiero della riserva muta dalla bassa costa di Isola delle Femmine fino all'imponente promontorio di Monte Gallo. Gli organismi marini presenti variano in relazione all'idrodinamismo, all'esposizione dei versanti, al grado di illuminazione e alla natura dei substrati. Appena ci si immerge per esempio si nota un marciapiede a vermetidi, una struttura formata da un'infinità di minuscoli molluschi i 'Dendropoma petraeum' la cui presenza indica che le acque sono ancora pulite ed ossigenate. Questi microorganismi difatti, crescono all'interno di tubi calcarei gli uni sugli altri creando un'ampia struttura molto resistente. Le formazioni di marciapiede di maggiori dimensioni si trovano sotto il Faro, attorno all'Isola delle Femmine, e a levante, a Punta Barcarello. E' sorprendente come a poca distanza da Palermo e a ridosso di Mondello siano conservati ambienti così belli e incontaminati dal punto di vista naturalistico. Capo Gallo sul versante a mare è privo di urbanizzazioni e conserva nella sua fascia costiera ambienti rari in tutto il Mediterraneo. Ciò è dovuto all'azione di varie correnti marine che consentono a questi luoghi di godere di acque pulitissime ed ossigenate. Le zone circostanti sono inoltre ricche di massi e cavità dove i colori delle spugne si contrappongono all'arancione delle madrepore e alle ramificazioni del corallo.
Qui nuotano indisturbati branchi di cefali ed esemplari di scorfano di Madeira. Infine, la presenza di plancton e di correnti marine attira pesci pelagici come le ricciole, i palamiti e i pesci luna. Nel perimetro dell'area marina protetta sono racchiusi altri ambienti spettacolari come i prati di Posidonia o di Cymodocea. Sono questi gli ambienti dove è più facile incontrare, oltre a seppie e polpi, grandi esemplari di nacchera, una specie protetta simbolo del Mediterraneo. Gli appassionati di immersione possono spingersi ad esplorare luoghi più profondi. A Largo di Punta Barcarello tra i 25 e i 35 metri si possono ammirare alcuni terrazzamenti dai quali si può ricostruire il livello delle acque nel corso dei millenni. Circa 20.000 anni fa difatti, le acque del pianeta si erano abbassate di circa 120 metri per poi risalire ma con varie pause. Sul fondo sono leggibili le linee che corrispondono a queste pause e che oggi corrispondono a profondità molto diverse popolate da organismi differenti. Qui si trovano fondamentalmente alghe rosse calcareee di tipo corallino su cui spiccano le ramificazioni delle eunicelle bianche. Vivono il riccio diadema, l'aragosta e grosse cernie che si sono fatte le tane negli anfratti della roccia. Fuori dalla zona A, all'esterno di Isola delle Femmine è possibile immergersi nei cosiddetti Canyon, fratture tra i 28 e i 40 metri ricoperti da un rigoglioso coralligeno sovrastate da alcune ramificazioni delle eunicelle bianche, mentre sulla parete le gorgonie rosse e qualche ventaglio rosso e giallo offrono uno scenario spettacolare. È sicuramente l'ambiente più colorato di tutta l'area marina protetta, dove al rosso delle gorgonie fanno da contraltare sciami di anthias, grossi scorfani, cernie e mustelle. Ancora più in profondità tra Isola delle Femmine e Sferracavallo, su un banco di sabbia, è adagiato il relitto di un Junker 52, inabissatosi il 18 aprile del 1943 nel corso di una battaglia aerea durante il secondo conflitto mondiale.
Le GrotteLa zona di Capo Gallo è ricca di anfratti e piccole grotte, per lo più semisommerse, che si aprono soprattutto lungo la costa Mazzone nel settore di ponente, quello compreso tra il faro e Punta Barcarello. Queste grotte marine modellate attraverso i millenni dal mare, conservano antiche tracce storiche, che possono raccontarci l'evoluzione e le vicende di questi luoghi. Le acque hanno scavato autentiche cavità tipiche del carsismo con grotte, inghiottitoi, cunicoli sia sott'acqua che sulla terra emersa. Tra le grotte più belle ricordiamo la Grotta dell'Olio che si apre a pelo d'acqua, i cui fondali sono ricchi di fauna e vegetazione variopinta e ospitano il relitto di una nave cartaginese con un carico di anfore. La grotta riceve luce da cavità che comunicano con l'esterno. La visita della grotta si completa con le zone esterne, dove una ricca copertura di alghe avvolge i massi tra prati di posidonia. All'esterno della grotta sulla destra dell'imboccatura si sviluppano una serie di tunnel con roccia colorata dalle alghe rosse e dalle spugne che vi crescono addosso. Procedendo sulla parete a sinistra invece, s'incontra un enorme arco di roccia con la volta tappezzata da madrepore arancione. Nella zona della Marinella si trova la Fossa del Gallo a 130 m s.l.m il cui accesso rimane riparato da enormi massi che ne occludono la visione dall'esterno e ne rendono difficoltosa la perlustrazione. Le pareti della Grotta Regina, dritte e lisce, conservano centinaia di iscrizioni e di disegni di periodi diversi, che rappresentano figure umane e animali fra le quali si distinguono un guerriero punico, un orso, un cavallo, un braccio avvinghiato da un serpente, tre navi, preghiere e firme. Le iscrizioni in lingua punica, neopunica, libica, sono state tradotte da esperti e hanno confermato la presenza di gruppi fenicio-punici di commercianti. Un disegno sulla parete sinistra della grotta raffigura un'antica nave da guerra cartaginese. La Grotta Impisu, che si apre a Sferracavallo in località Schillaci ha rivelato tracce di presenza umana di epoche preistoriche. Sono emersi anche resti di grandi animali vissuti (ed estinti) nel periodo del Quaternario, come il cervo e l'ippopotamo. Esempio tipico del carsismo è la Grotta della Mazzara, situata nella zona A della Riserva dove non possono essere fatte immersioni. Si tratta di un lungo cunicolo in cui la luce degrada dolcemente verso l'interno sino ad arrivare ad una zona completamente buia. Se si usano le torce è possibile ammirare una spiaggetta di ciottoli, mentre nella zona anteriore alcune fessure fanno filtrare la luce.
da http://www.siciliamare.eu/itinerari/Riserva%20naturale.htm
Capo Gallo è sovrastato dal monte omonimo, una formazione carsica formatasi nel periodo Mesozoico (225 milioni di anni fa) e nell'Eocene medio (54 e 33,7 milioni di anni fa) che presenta numerose manifestazioni erosive superficiali e parecchie cavità nel sottosuolo o grotte. Il versante settentrionale del monte è quello che mantiene le caratteristiche naturali meglio conservate, mentre quello meridionale si presenta con un suolo pietroso, brullo e steppico. La Riserva Naturale, che ha un estensione di 586 ettari, è stata istituita con Decreto dell'Assessorato Regionale Territorio e Ambiente n.970/91 ed è gestita dall'Azienda Foreste Demaniali della Regione Siciliana che l'ha salvata da uno stato d'incuria e abbandono e l'ha resa fruibile al pubblico. Il territorio è caratterizzato dalle biodiversità e al suo interno coesistono micromondi naturali dal fascino unico e diverse specie endemiche esclusive di questo territorio, tanto che l'area è stata inserita nella lista dei Sic (Siti d'importanza comunitaria).
La Riserva può essere visitata ogni giorno a piedi attraverso i percorsi segnati nelle apposite tabelle. Si può accedere all'area mediante tre punti: il primo sul versante orientale attraverso una proprietà privata accanto alla Torre di Mondello; il secondo dal versante opposto sempre attraverso una stradella privata che inizia in contrada Barcarella di Sferracavallo; il terzo sul versante meridionale, dal quale attraverso una strada comunale che inizia alle spalle di Partanna Mondello e costeggia Pizzo Sella si può arrivare sino a quota 527 m. s.l.m. al cosiddetto Semaforo, interessante costruzione militare di avvistamento.
Proprio sulle cime del monte si trova l'habitat ideale per i piccoli uccelli tra cui le cincie, i fringillidi, il merlo, l'occhiocotto e il colombaccio. Di notte sulle pareti rocciose è possibile avvistare il barbagianni e l'allocco più diffuso tra la vegetazione. Nonostante la forte antropizzazione alla base del monte, vive anche la volpe, il più grosso mammifero predatore superstite in Sicilia. Sul Monte Gallo, si possono osservare molte specie interessanti in transito nelle stagioni di passo come la cicogna bianca, il falco pecchiaiolo, il coloratissimo gruccione ed il cuculo. Di grande interesse sono le numerose specie endemiche o rare quali: Limonio di Palermo (Limonium panormitanum) specie molto rara esclusiva di Capo Gallo e Monte Pellegrino, Allium lehmannii, Centaurea ucria, Scabiosa limonifolia, Brassica rupestris, Hieracium lucidum, Lithodora rosmarifolia ecc. Si possono anche osservare alcune orchidee selvatiche le più interessanti delle quali sono l'Ofride verde-bruna siciliana, l'Ofride verde-bruna palermitana e l'Ofride di Branciforti.
Le zone sommerse
Lo sviluppo costiero della riserva muta dalla bassa costa di Isola delle Femmine fino all'imponente promontorio di Monte Gallo. Gli organismi marini presenti variano in relazione all'idrodinamismo, all'esposizione dei versanti, al grado di illuminazione e alla natura dei substrati. Appena ci si immerge per esempio si nota un marciapiede a vermetidi, una struttura formata da un'infinità di minuscoli molluschi i 'Dendropoma petraeum' la cui presenza indica che le acque sono ancora pulite ed ossigenate. Questi microorganismi difatti, crescono all'interno di tubi calcarei gli uni sugli altri creando un'ampia struttura molto resistente. Le formazioni di marciapiede di maggiori dimensioni si trovano sotto il Faro, attorno all'Isola delle Femmine, e a levante, a Punta Barcarello. E' sorprendente come a poca distanza da Palermo e a ridosso di Mondello siano conservati ambienti così belli e incontaminati dal punto di vista naturalistico. Capo Gallo sul versante a mare è privo di urbanizzazioni e conserva nella sua fascia costiera ambienti rari in tutto il Mediterraneo. Ciò è dovuto all'azione di varie correnti marine che consentono a questi luoghi di godere di acque pulitissime ed ossigenate. Le zone circostanti sono inoltre ricche di massi e cavità dove i colori delle spugne si contrappongono all'arancione delle madrepore e alle ramificazioni del corallo.
Qui nuotano indisturbati branchi di cefali ed esemplari di scorfano di Madeira. Infine, la presenza di plancton e di correnti marine attira pesci pelagici come le ricciole, i palamiti e i pesci luna. Nel perimetro dell'area marina protetta sono racchiusi altri ambienti spettacolari come i prati di Posidonia o di Cymodocea. Sono questi gli ambienti dove è più facile incontrare, oltre a seppie e polpi, grandi esemplari di nacchera, una specie protetta simbolo del Mediterraneo. Gli appassionati di immersione possono spingersi ad esplorare luoghi più profondi. A Largo di Punta Barcarello tra i 25 e i 35 metri si possono ammirare alcuni terrazzamenti dai quali si può ricostruire il livello delle acque nel corso dei millenni. Circa 20.000 anni fa difatti, le acque del pianeta si erano abbassate di circa 120 metri per poi risalire ma con varie pause. Sul fondo sono leggibili le linee che corrispondono a queste pause e che oggi corrispondono a profondità molto diverse popolate da organismi differenti. Qui si trovano fondamentalmente alghe rosse calcareee di tipo corallino su cui spiccano le ramificazioni delle eunicelle bianche. Vivono il riccio diadema, l'aragosta e grosse cernie che si sono fatte le tane negli anfratti della roccia. Fuori dalla zona A, all'esterno di Isola delle Femmine è possibile immergersi nei cosiddetti Canyon, fratture tra i 28 e i 40 metri ricoperti da un rigoglioso coralligeno sovrastate da alcune ramificazioni delle eunicelle bianche, mentre sulla parete le gorgonie rosse e qualche ventaglio rosso e giallo offrono uno scenario spettacolare. È sicuramente l'ambiente più colorato di tutta l'area marina protetta, dove al rosso delle gorgonie fanno da contraltare sciami di anthias, grossi scorfani, cernie e mustelle. Ancora più in profondità tra Isola delle Femmine e Sferracavallo, su un banco di sabbia, è adagiato il relitto di un Junker 52, inabissatosi il 18 aprile del 1943 nel corso di una battaglia aerea durante il secondo conflitto mondiale.
Le GrotteLa zona di Capo Gallo è ricca di anfratti e piccole grotte, per lo più semisommerse, che si aprono soprattutto lungo la costa Mazzone nel settore di ponente, quello compreso tra il faro e Punta Barcarello. Queste grotte marine modellate attraverso i millenni dal mare, conservano antiche tracce storiche, che possono raccontarci l'evoluzione e le vicende di questi luoghi. Le acque hanno scavato autentiche cavità tipiche del carsismo con grotte, inghiottitoi, cunicoli sia sott'acqua che sulla terra emersa. Tra le grotte più belle ricordiamo la Grotta dell'Olio che si apre a pelo d'acqua, i cui fondali sono ricchi di fauna e vegetazione variopinta e ospitano il relitto di una nave cartaginese con un carico di anfore. La grotta riceve luce da cavità che comunicano con l'esterno. La visita della grotta si completa con le zone esterne, dove una ricca copertura di alghe avvolge i massi tra prati di posidonia. All'esterno della grotta sulla destra dell'imboccatura si sviluppano una serie di tunnel con roccia colorata dalle alghe rosse e dalle spugne che vi crescono addosso. Procedendo sulla parete a sinistra invece, s'incontra un enorme arco di roccia con la volta tappezzata da madrepore arancione. Nella zona della Marinella si trova la Fossa del Gallo a 130 m s.l.m il cui accesso rimane riparato da enormi massi che ne occludono la visione dall'esterno e ne rendono difficoltosa la perlustrazione. Le pareti della Grotta Regina, dritte e lisce, conservano centinaia di iscrizioni e di disegni di periodi diversi, che rappresentano figure umane e animali fra le quali si distinguono un guerriero punico, un orso, un cavallo, un braccio avvinghiato da un serpente, tre navi, preghiere e firme. Le iscrizioni in lingua punica, neopunica, libica, sono state tradotte da esperti e hanno confermato la presenza di gruppi fenicio-punici di commercianti. Un disegno sulla parete sinistra della grotta raffigura un'antica nave da guerra cartaginese. La Grotta Impisu, che si apre a Sferracavallo in località Schillaci ha rivelato tracce di presenza umana di epoche preistoriche. Sono emersi anche resti di grandi animali vissuti (ed estinti) nel periodo del Quaternario, come il cervo e l'ippopotamo. Esempio tipico del carsismo è la Grotta della Mazzara, situata nella zona A della Riserva dove non possono essere fatte immersioni. Si tratta di un lungo cunicolo in cui la luce degrada dolcemente verso l'interno sino ad arrivare ad una zona completamente buia. Se si usano le torce è possibile ammirare una spiaggetta di ciottoli, mentre nella zona anteriore alcune fessure fanno filtrare la luce.
da http://www.siciliamare.eu/itinerari/Riserva%20naturale.htm
L'oasi del simeto
L'Oasi del Simeto Un'area naturalistica |
|
domenica 24 febbraio 2013
La leggenda del
gigante Tifeo
Tifeo, nella
mitologia greca, era un mostro nemico di Zeus. Figlio di Gaia aveva tre teste
di cui una sola era umana, una coda e delle ali. Quello che si dice un brutto
soggetto!Venne gettato dentro l'Etna e da qui continua ad emettere
cenere e fumi.
Per certi aspetti Tifeo è il simbolo della ribellione. Già, un cattivo che per vendetta si scaglia contro il potente di quegli anni, Zeus appunto. Come spesso accade ai ribelli il nostro amico gigante viene sconfitto, ma non muore. Infatti il suo respiro diventa vulcano.
Narra la leggenda che la Sicilia è sorretta da un gigante:
questo gigante si chiama Tifeo, che osò impadronirsi della sede del cielo e per
questo venne condannato a questo supplizio. Sopra la sua mano destra sta Peloro
(Messina), sopra la sinistra Pachino, Lilibeo (Trapani) gli comprime le gambe, e
sopra la testa grava l'Etna.
Dal fondo supino, Tifeo inferocito proietta sabbia e vomita fiamme dalla bocca. Spesso si sforza di smuovere il peso e di scrollarsi di dosso le città e le grandi montagne: allora la terra trema. |
Il "Mothman" l'Uomo Falena
Miti millenari o leggende antiche
sembrano attingere forza dalle nostre paure ed assumere un vigore ed una potenza
tali da trasformarle in eventi reali, privi di ogni connotazione fantastica. Tra
i casi più estremi ed affascinanti che si possano ricordare negli ultimi decenni
troviamo sicuramente quelli legati alla misteriosa creatura alata oramai
conosciuta come Mothman, l’uomo falena.
Tutto iniziò il 12 novembre del 1966 nel West Virginia, il primo avvistamento risale al '66 anche se recenti indagini sembrerebbero far presumere che un "fenomeno uomo-falena" possa esistere da molto più tempo di quanto ritenuto. Gli eventi occorsi nel West Virginia non sono collocabili all’interno di quelle isterie di massa che magari furono tanto popolari nel medioevo, come anche non possiamo chiamare in causa abbagli di varia natura per gente che era abituata a vivere con la natura e a coltivarne i suoi frutti e ad allevare le sue creature. Ciò che accadde a Point Pleasant non fu neanche un unicum topologico e storico, molti altri avvistamenti si sarebbero susseguiti nel corso del tempo e quasi nessuno avrebbero trovato risposte certe come molti invece hanno fatto credere. Ciò che queste persone videro e sperimentarono trascese totalmente l’intelletto umano posizionandosi all’interno di quel nuovo campo della psicologia che viene oggi conosciuta come Psicologia dell’Insolito e degli Eventi Straordinari come anche all’interno di quella vasta casistica IR-IV su incontri tra individui ed esseri di possibile origine extraterrestre. Si perché il Mothman è ormai acclaratamente parte della letteratura ufologica mondiale. La sua presenza è stata in molte occasioni associata a quei velivoli che siamo stati abituati a chiamare UFO e la sua presenza ha sempre accompagnato flap localizzati di avvistamenti. Tali eventi sono a pieno titolo fatti straordinari rimasti a distanza di decenni senza nessuna spiegazione logica, e vorremmo aggiungere anche zoologica . Ritornando alla nostra indagine si rese ben evidente come la maggior parte degli avvistamenti della strana creatura fosse avvenuta nelle vicinanze del deposito di esplosivi abbandonato oggetto del secondo avvistamento del 15 novembre. Quale luogo migliore per nascondersi che una struttura della seconda guerra mondiale ormai disabitata? La presenza di una serie di gallerie ad alveare sotterranee, che dipartivano dal deposito e si districavano per diversi chilometri nella zona permetteva a questo strano essere di muoversi indisturbato senza la minima possibilità di essere visto. In aggiunta al deposito di esplosivi, reso invalicabile per motivi di sicurezza, si aggiungeva nella zona il McClintic Wildlife Station una grande riserva naturale demaniale inaccessibile per la sua fauna e flora protetta.
Tutto iniziò il 12 novembre del 1966 nel West Virginia, il primo avvistamento risale al '66 anche se recenti indagini sembrerebbero far presumere che un "fenomeno uomo-falena" possa esistere da molto più tempo di quanto ritenuto. Gli eventi occorsi nel West Virginia non sono collocabili all’interno di quelle isterie di massa che magari furono tanto popolari nel medioevo, come anche non possiamo chiamare in causa abbagli di varia natura per gente che era abituata a vivere con la natura e a coltivarne i suoi frutti e ad allevare le sue creature. Ciò che accadde a Point Pleasant non fu neanche un unicum topologico e storico, molti altri avvistamenti si sarebbero susseguiti nel corso del tempo e quasi nessuno avrebbero trovato risposte certe come molti invece hanno fatto credere. Ciò che queste persone videro e sperimentarono trascese totalmente l’intelletto umano posizionandosi all’interno di quel nuovo campo della psicologia che viene oggi conosciuta come Psicologia dell’Insolito e degli Eventi Straordinari come anche all’interno di quella vasta casistica IR-IV su incontri tra individui ed esseri di possibile origine extraterrestre. Si perché il Mothman è ormai acclaratamente parte della letteratura ufologica mondiale. La sua presenza è stata in molte occasioni associata a quei velivoli che siamo stati abituati a chiamare UFO e la sua presenza ha sempre accompagnato flap localizzati di avvistamenti. Tali eventi sono a pieno titolo fatti straordinari rimasti a distanza di decenni senza nessuna spiegazione logica, e vorremmo aggiungere anche zoologica . Ritornando alla nostra indagine si rese ben evidente come la maggior parte degli avvistamenti della strana creatura fosse avvenuta nelle vicinanze del deposito di esplosivi abbandonato oggetto del secondo avvistamento del 15 novembre. Quale luogo migliore per nascondersi che una struttura della seconda guerra mondiale ormai disabitata? La presenza di una serie di gallerie ad alveare sotterranee, che dipartivano dal deposito e si districavano per diversi chilometri nella zona permetteva a questo strano essere di muoversi indisturbato senza la minima possibilità di essere visto. In aggiunta al deposito di esplosivi, reso invalicabile per motivi di sicurezza, si aggiungeva nella zona il McClintic Wildlife Station una grande riserva naturale demaniale inaccessibile per la sua fauna e flora protetta.
Nel lontano '66 il primo avvistamento lo fecero 5 uomini, che si trovavano all'interno di un cimitero (nel Clendenin, in Virginia), per scavare la fossa di un cittadino scomparso da poco, i 5 uomini alternavano il lavoro a momenti di relax, fino a quando videro volare sulla propria testa una strana figura che dopo venne descritto come: UOMO MARRONE CON LE ALI. Niente di simile era stato avvistato fino a quel momento, i lavoratori rimasero scioccati ma non furono gli unici ad assistere a questo strano fenomeno. Tre giorni dopo si verificò un nuovo caso di
avvistamento uomo falena, era il 15 novembre quando un coppia si trovava a percorrere una strada che portava al piccolo paesino di Point Pleasant, nel West Virginia. Improvvisamente avvistarono la strana creatura, quella notte altri individui sarebbero stati testimoni di altri agguati. Un gruppo composto da quattro persone era stato testimone di non meno di quattro avvistamenti dello strano uccello gigante. Nella stessa sera verso le 22.30 Newell Partridge, costruttore edile,mentre guardava la televisione, venne infastidito da una continua assenza di segnale accompagnata da un oscuramento totale con televisione accesa, l'uomo si avvicinò al televisore udendo uno strano suono che proveniva dall'esterno della sua abitazione, il cane di Partridge ululava costringendo l'uomo a munirsi di torcia e recarsi fuori casa. L'uomo puntò la torcia nel punto dove il cane ululava e vide lo strano soggetto. Nelle successive interviste Partridge esperto cacciatore raccontò che la sua non era allucinazione, ma ciò che vide esisteva realmente.
L'avvistamento più sensazionale, venne effettuato da due piloti di un aereo sopra l'aeroporto di Gallipolis Ohio, che avevano scambiato lo strano essere per un piccolo aereo, mentre si trovavano ad una velocità di 110 Km/h, l'essere in questione, sopportava quella velocità senza battere ali! Pochi uccelli sono in grado di andare a quella velocità e per giunta in volo orizzontale e non in picchiata. In più di qualche caso, l'essere si avvicinò tanto ai testimoni, da poterli sfiorare e attaccare. In linea di massima, si poté fare una descrizione dell'essere:
1)Altezza: alto da 1,30 a 2,0 M. 2) Larghezza: largo in alto, lievemente affusolato, più largo di un Uomo. 3) Rivestimento: i testimoni non sono riusciti a precisare se è vestito o ricoperto di pelle grigia sebbene alcuni testimoni, ebbero l'impressione che fosse bruno. 4) Testa: visto da dietro sembra non avere testa, pochi testimoni riferirono di aver visto una faccia. 5) Occhi: dotati di luminosità propria, rosso-vivi, del diametro approssimativo di 5-8 Cm distanti tra loro. Gli occhi si trovano vicino alle spalle. 6) Gambe: di tipo umano, l'essere cammina eretto come un uomo, e non curvo come un orso, muove le gambe come se trascinasse i piedi. 7) Braccia: i testimoni riferirono che l'essere non aveva braccia. 8) Ali: ripiegate contro il dorso quando non vengono usate; l'apertura d'ali, su questo tutti i testimoni sono d'accordo, è di circa 3 metri simili a quelle di un pipistrello, non battono in volo. 9) Suoni: suoni, squittii come un topo, un testimone disse che emetteva un suono simile "al cigolio della cinghia di una ventola". Due testimoni dichiararono di aver udito un ronzio metallico mentre l'essere li sorvolava. 10)Velocità: avrebbe retto l'andatura di automobili che andavano a 120-160 Km/h, senza battere ali.
sabato 23 febbraio 2013
la fata Morgana
Secondo il mito, Morgana è figlia di Igraine e di Urien, e sorellastra di Artù.
La prima opera letteraria nella quale appare la figura di Morgana è la "Vita
Merlini" di Goffredo di Monmouth, 1148, nella quale Morgen è una fata
guaritrice, che cura Re Artù, e che vive ad Avalon con nove sacerdotesse...
Un breve accenno alla figura di Morgana era già presente
nell'Historia Britannicum, nella quale si narrava che Artù era stato
curato ad Avalon.
Attorno al 1170 Morgana riappare in "Erec et Enide", in questo testo è sorella di Artù e fata guaritrice.
Benoit de Saint Marure la cita nel "Roman de Troie", 1160 e in "La Vulgata Lancelot" si dice di lei: "Verità fu che Morgana, la sorella di re Artù, era molto esperta di incantesimi e di sortilegi e più di tutte le donne; e per il grande impegno che ci mise lasciò e abbandonò la comunità della gente e soggiornava giorno e notte in foreste profonde e presso le fonti, cosicchè molte persone, che erano molte nel paese, non dicevano che era una donna, ma la chiamavano Morgana la dea".
Con il passare del tempo la figura di Morgana andrà sempre più assumendo tratti negativi e da guaritrice diventerà traditrice e maga, caratteristica che le rimarrà addosso in tutta la letteratura cortese del XIII secolo.
La peculiarità della figura della fata nei romanzi del XII secolo era di abitare in un altro luogo e di poter curare il re ferito, mentre nel XIII secolo la caratteristica è quella di rapire gli uomini e farne suoi amanti.
Attorno al 1170 Morgana riappare in "Erec et Enide", in questo testo è sorella di Artù e fata guaritrice.
Benoit de Saint Marure la cita nel "Roman de Troie", 1160 e in "La Vulgata Lancelot" si dice di lei: "Verità fu che Morgana, la sorella di re Artù, era molto esperta di incantesimi e di sortilegi e più di tutte le donne; e per il grande impegno che ci mise lasciò e abbandonò la comunità della gente e soggiornava giorno e notte in foreste profonde e presso le fonti, cosicchè molte persone, che erano molte nel paese, non dicevano che era una donna, ma la chiamavano Morgana la dea".
Con il passare del tempo la figura di Morgana andrà sempre più assumendo tratti negativi e da guaritrice diventerà traditrice e maga, caratteristica che le rimarrà addosso in tutta la letteratura cortese del XIII secolo.
La peculiarità della figura della fata nei romanzi del XII secolo era di abitare in un altro luogo e di poter curare il re ferito, mentre nel XIII secolo la caratteristica è quella di rapire gli uomini e farne suoi amanti.
la leggenda di Mata e Grifone
La
leggenda di Mata e Grifone
Mata e Grifone sono due statue gigantesche che, nei secoli sono state accostate a varie figure mitologiche: Crono e Rea (ovvero, nella tradizione latina, Saturno e Cibele), Cam e Rea, Zanclo e Rea, infine Mata e Grifone.Le versioni del mito di Mata e Grifone sono diverse, alcune narrano che il gigantesco guerriero e la regina bianca rappresentino i veri fondatori di Messina, mentre altre ritengono che siano i prigionieri musulmani fatti dal condottiero Ruggero D'Altavilla nel 1086.La costruzione di queste statue è attribuita al fiorentino Martino Montanini, allievo del Montorsoli su incarico del Senato di Messina intorno al 1550.Mata, su un destriero bianco (un tempo scuro), simboleggia l'elemento indigeno; la tradizione la vuole nativa di Camaro, antico quartiere cittadino sull'omonimo torrente.
La testa è un rifacimento dell'originale andato distrutto prima a seguito del terremoto del 1783, successivamente nel terremoto del 1908 infine dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.L'attuale statua è stata eseguita dallo scultore Mariano Grasso nel 1958. Presenta sul capo una corona con tre torri (forse le torri dell'antico castello di Matagrifone), oltre che ramoscelli e fiori; dalle orecchie le pendono orecchini d'oro. Indossa una corazza di colore azzurro con ricami in oro sopra una veste bianca che le copre le ginocchia; porta ai piedi calzari con stringhe intrecciate. Sulle spalle un mantello di velluto blu.Zanclo (Grifone), che cavalca uno stallone nero (un tempo bianco), ha una bellissima testa di moro, incoronata con foglie di lauro e ornata da orecchini a mezzaluna. Indossa una corazza sopra una corta tunica bianca bordata in oro. Nella mano destra impugna una mazza di metallo, con la sinistra tiene le redini e al braccio ha uno scudo ovale al cui interno vi sono raffigurate tre torri nere su sfondo verde.
Porta al fianco una bella spada la cui elsa è ornata da una testa di leone e da due teste di uccelli rapaci. Sulle sue spalle, un mantello di velluto rosso.
La più accreditata delle leggende si riferisce al 964, quando Messina era l’ultimo baluardo siciliano che resisteva all'occupazione araba. Un generale invasore di nome Hassas Ibn-Hammar, durante l’assedio alla città, vide la bella Mata figlia di un commerciante messinese.
Innamoratosene costrinse con la forza il padre a dargliela in sposa. Le mille attenzioni del saraceno non furono sufficienti a far innamorare la candida fanciulla, solo la sua conversione al cristianesimo riuscirono ad intenerirne il cuore.
Il nome di Hassan diventò Grifo ribattezzato Grifone per la sua mole. I due innamorati prosperarono e vissero... felici e contenti.
Nella realtà invece, la loro nascita è da collocarsi intorno alla fine del XVI sec., in un momento in cui si era di nuovo inasprita la rivalità tra Messina e Palermo, su quale delle due dovesse ricoprire il ruolo di capitale.
Nel 1591 Filippo II ordinò che il Vicere risiedesse a Messina per 18 mesi ogni triennio. In questi anni le due città facevano a gara nell'esibire titoli e privilegi che potessero far prevalere l'una su l'altra.
Nel 1547 in contrada Maredolce, a Palermo furono rinvenute delle ossa gigantesche, probabili resti dell'antica fauna che aveva popolato l'Isola in epoca preistorica (elefanti nani e ippopotami).
Questo ritrovamento fece asserire ai Palermitani che la loro città era stata fondata da "Giganti", quindi in epoca assai remota, e ciò le arrecava un maggior prestigio rispetto alla città dello Stretto.
Forse fu per reazione a queste pretese che il Senato di Messina ordinò la costruzione delle due statue.
castelli siciliani
|
Castelli SicilianiI manieri della paura, storia di miti e di baroni
|
MISTRETTA-UNA CITTA' CON LE CASE DI PIETRA DORATE
Chi volesse ammirare una città con le sue case “di pietra dorata” - lavoro
paziente di scalpellini oramai scomparsi - può lasciare la statale 113, che da
Messina porta verso Palermo, ed affrontare i tornanti della statale 117. Si
raggiungerà Mistretta, uno dei centri storici meglio conservati della Provincia
di Messina. E’ la testimonianza di una vivacità culturale, politica ed economica
che ha prodotto segni tangibili nei suoi monumenti. Le note storiche ricordano
che la città appartenne quasi sempre alla corona, e pertanto fu sottratta al
vassallaggio feudale, fin quando Filippo IV di Spagna, per sostenere le sue
spese militari, decise di vendere la città ad un tal Gregorio Castelli, conte di
Gagliano, per la somma di 80.000 scudi. Era l’anno 1632 , che nella storia di
Mistretta segna un punto nodale. I cittadini uniti decisero di sostenere
l’ingente sforzo economico di riscattare la città. Rimangono memorabili le
parole del consigliere Giuseppe Valenti, che nella seduta di votazione esclamò:
«Bisogna procurare il prestito a qualunque patto perché devesi stimare la liberà
come la propria salute».
L’animo patriottico degli abitanti di Mistretta è nuovamente testimoniato durante la rivoluzione antiborbonica, che porterà all’unità italiana. La città fu, dopo Palermo, la prima che insorse, inalberando la bandiera nazionale, allestita clandestinamente, sulla torre del Castello, la sera dell’otto aprile 1860. Questo Castello è stato il fulcro degli avvenimenti storici che hanno interessato l’esistenza di Mistretta; venne numerose volte distrutto e ricostruito, per essere infine devastato definitivamente da una frana. E’ proprio ai piedi del Castello che si è accentrato Il primo nucleo dell’abitato, sorto in epoca prenormanna, arroccato al costone roccioso che emerge sui declivi della valle, e preannuncia le alte e boscose cime dei Nebrodi.
I toponimi dei quartieri richiamano alla memoria le particolari vicende dei luoghi o degli edifici, generalmente di culto, che ne hanno costituito il punto emergente, come i quartieri di S. Vincenzo, del Carmine, della Madre Rivinusa, del Roccazzo, di S. Nicolò, che si distendono ai piedi del Castello. Il quartiere Purgatorio, ad esempio, prende il nome da una chiesa dedicata alle Anime Purganti. Di fronte vi era la chiesa di S. Antonio Abate, fondata in epoca normanna. Alle sue spalle, quello che un tempo era il quartiere arabo (Rabah). Il tratto di Mistretta circoscritto fra via Libertà, piazza Vittorio Veneto e piazza Dogali, è il "cuore" della città, comprendendo la Chiesa Madre dedicata a Santa Lucia (edificio esistente già nel secolo XII e completato nel Rinascimento), e le chiese di S. Sebastiano e S. Francesco.
Il quartiere S. Caterina, intitolato alla martire alessandrina, annovera diversi rioni: "A Nivera", perché durante le nevicate invernali vi si raccoglieva la neve gelata da mettere in vendita; "L’acqua ramata", per l’acqua ramosa che sgorga dalle sue fontane; "U risittaculu", sede dell’acquedotto comunale; "A maredde", ovvero la strada che porta alla "Santuzza", ossia la chiesetta dedicata appunto “a Maria”. In questo quartiere di S. Caterina, si ammirano palazzi a due o tre piani, con portali, balconi e finestre decorati, dove l’occhio attento può avvertire il passaggio dalle forme barocche allo stile neoclassico. Sono i palazzi della nuova urbanizzazione che si rafforza nel Sei-Settecento e si consolida nell’Ottocento con il quartiere Saddio, che con i suoi dodici palazzi testimonia l’elevato reddito dei residenti appartenenti all’alta borghesia.
Dai quartieri più arroccati, quindi, la città si espande nei luoghi più accessibili. Il tessuto urbano si articola in ampie vie rettilinee. Le strade principali divengono acciottolate; due fasce di basolato rendono più agevole e spedito il transito dei carri che trasportano le merci per le fiere che si tengono fuori dalla porta S. Caterina. Nel quartiere di S. Biagio, troviamo "U munte" e "U palo. I toponimi ricordano "u munte" dei Pegni e "u palo" al quale in epoca saracena, si impiccavano i condannati a morte. Nel quartiere di S. Giovanni la presenza della via Ughetti, ossia "U ghetto", fa ipotizzare la presenza di una comunità ebraica, la stessa tipologia delle abitazioni sembra confermare tale tesi. Nel quartiere di S. Giuseppe è possibile trovare il cosiddetto "ospedale vecchio” opera cinquecentesca del benefico finanziatore Filippo Pizzuto. Gli ospedali fornivano un prezioso servizio sociale, impegnati a curare malanni e pestilenze. La vita materiale emerge nel rione Petra Pilata (pietra viva) del quartiere del SS. Rosario, per la presenza delle pietre del lavatoio utilizzate dalle donne di casa sino alla fine dell’Ottocento. Come dire: la città dell’arte e del quotidiano.
L’animo patriottico degli abitanti di Mistretta è nuovamente testimoniato durante la rivoluzione antiborbonica, che porterà all’unità italiana. La città fu, dopo Palermo, la prima che insorse, inalberando la bandiera nazionale, allestita clandestinamente, sulla torre del Castello, la sera dell’otto aprile 1860. Questo Castello è stato il fulcro degli avvenimenti storici che hanno interessato l’esistenza di Mistretta; venne numerose volte distrutto e ricostruito, per essere infine devastato definitivamente da una frana. E’ proprio ai piedi del Castello che si è accentrato Il primo nucleo dell’abitato, sorto in epoca prenormanna, arroccato al costone roccioso che emerge sui declivi della valle, e preannuncia le alte e boscose cime dei Nebrodi.
I toponimi dei quartieri richiamano alla memoria le particolari vicende dei luoghi o degli edifici, generalmente di culto, che ne hanno costituito il punto emergente, come i quartieri di S. Vincenzo, del Carmine, della Madre Rivinusa, del Roccazzo, di S. Nicolò, che si distendono ai piedi del Castello. Il quartiere Purgatorio, ad esempio, prende il nome da una chiesa dedicata alle Anime Purganti. Di fronte vi era la chiesa di S. Antonio Abate, fondata in epoca normanna. Alle sue spalle, quello che un tempo era il quartiere arabo (Rabah). Il tratto di Mistretta circoscritto fra via Libertà, piazza Vittorio Veneto e piazza Dogali, è il "cuore" della città, comprendendo la Chiesa Madre dedicata a Santa Lucia (edificio esistente già nel secolo XII e completato nel Rinascimento), e le chiese di S. Sebastiano e S. Francesco.
Il quartiere S. Caterina, intitolato alla martire alessandrina, annovera diversi rioni: "A Nivera", perché durante le nevicate invernali vi si raccoglieva la neve gelata da mettere in vendita; "L’acqua ramata", per l’acqua ramosa che sgorga dalle sue fontane; "U risittaculu", sede dell’acquedotto comunale; "A maredde", ovvero la strada che porta alla "Santuzza", ossia la chiesetta dedicata appunto “a Maria”. In questo quartiere di S. Caterina, si ammirano palazzi a due o tre piani, con portali, balconi e finestre decorati, dove l’occhio attento può avvertire il passaggio dalle forme barocche allo stile neoclassico. Sono i palazzi della nuova urbanizzazione che si rafforza nel Sei-Settecento e si consolida nell’Ottocento con il quartiere Saddio, che con i suoi dodici palazzi testimonia l’elevato reddito dei residenti appartenenti all’alta borghesia.
Dai quartieri più arroccati, quindi, la città si espande nei luoghi più accessibili. Il tessuto urbano si articola in ampie vie rettilinee. Le strade principali divengono acciottolate; due fasce di basolato rendono più agevole e spedito il transito dei carri che trasportano le merci per le fiere che si tengono fuori dalla porta S. Caterina. Nel quartiere di S. Biagio, troviamo "U munte" e "U palo. I toponimi ricordano "u munte" dei Pegni e "u palo" al quale in epoca saracena, si impiccavano i condannati a morte. Nel quartiere di S. Giovanni la presenza della via Ughetti, ossia "U ghetto", fa ipotizzare la presenza di una comunità ebraica, la stessa tipologia delle abitazioni sembra confermare tale tesi. Nel quartiere di S. Giuseppe è possibile trovare il cosiddetto "ospedale vecchio” opera cinquecentesca del benefico finanziatore Filippo Pizzuto. Gli ospedali fornivano un prezioso servizio sociale, impegnati a curare malanni e pestilenze. La vita materiale emerge nel rione Petra Pilata (pietra viva) del quartiere del SS. Rosario, per la presenza delle pietre del lavatoio utilizzate dalle donne di casa sino alla fine dell’Ottocento. Come dire: la città dell’arte e del quotidiano.
CHIESA MADRE DI MISTRETTA
Chiesa Madre di Mistretta |
La Chiesa Madre di Mistretta sorge nel cuore del centro abitato e sporge, lungo il fianco meridionale, sulla piazza Vittorio Veneto. Dedicata a S. Lucia nel XVII secolo, ma di tale intitolazione si ha già notizia in epoca normanna.
La chiesa, nel XVI secolo, aveva un aspetto diverso dall'attuale, con il presbiterio situato dove adesso si trova la porta maggiore. Della chiesa cinquecentesca facevano già parte il Portale settendrionale in marmo del 1494 attribuito a Giorgio da Milano e la torre campanaria di sud-est, sulla quale è incisa la data 1521. L'ingresso principale, col relativo Portale maggiore in pietra scolpita, fu probabilmente scolpito più tardi. Nel 1626 viene aperto un nuovo ingresso laterale con un portale in pietra.
La facciata è dotata di un portale barocco con decorazioni in pietra intagliata, l’interno di forma rinascimentale, elegante con colonne corinzie e grandi arcate ospita un notevole patrimonio artistico: l’ancona marmorea di S. Lucia coi santi Pietro e Paolo e gli Apostoli di Vincenzo Gagini, il Cristo Risorto (1552), la statua della Madonna dei Miracoli (1495), il medaglione in marmo posto nell’altare maggiore raffigurante la Pietà di Marabitti, il maestoso organo e numerose tele del XVII-XVIII sec. realizzate da vari autori fra i quali Giuseppe Tomasi da Tortorici , Antonino Manno, Vincenzo Genovese e Benedetto Berna.
Da attribuire a Giovanni Biffarella il maestoso Coro ligneo del XVIII secolo con i suoi settantuno stalli finemente scolpiti.
|
S. BENEDETTO "IL MORO ":UN FIORE ESOTICO SBOCCIATO IN SICILIA
ARCIDIOCESI
DI PALERMO
LETTERA
DELL'ARCIVESCOVO
NEL IV CENTENARIO DELLA MORTE DEL SANTO
Di S.
Benedetto da S. Fratello, detto anche «il Moro», noi abbiamo quasi perso la
memoria, anche se il suo corpo è custodito in Palermo, nella Chiesa dei Frati
Minori di S. Maria di Gesù. Bene hanno fatto, perciò, i PP. Francescani, in
quest'anno in cui cade il quarto centenario della morte del Santo, a farsi
promotori di un programma di celebrazioni che, a partire dal prossimo aprile, si
articoleranno in varie manifestazioni fino al 1990 per mettere in evidenza la
realtà prodigiosa e la personalità del loro santo confratello, nei tratti più
caratteristici della sua vita e nel messaggio che da essa giunge, pur dopo tanta
di-stanza di tempo, alle nostre generazioni.
I suoi umili
natali
Benedetto nacque nel 1526 a S. Fratello (Messina); è quindi
figlio di questa nostra terra sicula, ma i suoi genitori, Cristoforo e Diana,
provenivano da lontano, essendovi stati condotti, in condizione di schiavitù
dall'Africa, forse dall'Etiopia.
La
Sicilia era allora un'appendice del Regno di Aragona, con a capo un Viceré
strettamente legato alla Corona spagnola. Nell'epoca alla quale ci riferiamo
regnava Carlo V, del cui trionfale ingresso a Palermo, nel 1535, rimane come
ricordo la Porta Nuova.
Le
condizioni del popolo siciliano, se si escludono le classi dominanti, era
veramente misera; analfabetismo, indigenza, insicurezza dominavano ed era
diffusa anche la presenza di schiavi che, catturati sulle coste dell'Africa,
venivano venduti sia in Spagna, sia nei possedimenti spagnoli compresa la
Sicilia.
Dovette essere in questo periodo che i genitori di Benedetto
furono acquistati da un ricco signore di S. Fratello.
A tale
origine africana e al colore della sua pelle si deve l'appellativo «il Moro» con
cui venne indicato sia da ragazzo, sia poi da grande, ed è anche questo il
motivo per cui si diffusero, in seguito, la devozione ed il culto verso di lui
in varie nazioni d'Europa, Spagna e Portogallo, del Sud America, l'Argentina, il
Perù, il Venezuela, il Messico, il Brasile, sia anche negli Stati Uniti,
divenendo dappertutto il protettore delle popolazioni di colore, invocato come
S. Benito da Palermo.
Ora
che molti cristiani dell'Africa nera si trovano in mezzo a noi, venuti per
cercare lavoro, può essere per loro motivo di particolare interesse e di
incoraggiamento scoprire nella nostra città una così significativa e storica
espressione della loro presenza: un Santo addirittura, le cui spoglie qui da
secoli custodite, vengono ora fatte oggetto di rinnovata venerazione.
Benedetto ricevette una buona educazione cristiana sia dai
genitori che dal padrone, un certo Manasseri, che lo volle libero, fin dalla
nascita e gli procurò il lavoro impegnandolo a custodire gli animali nei suoi
campi.
Ben
presto però il giovane pastore si sentì attratto ad una vita di raccoglimento e
di preghiera; curò come potè la sua istruzione religiosa; partecipava con
frequenza alla celebrazione eucaristica ricevendo la S. Comunione con grande
fervore; nutriva una grande devozione verso il Crocifisso, mentre andava
crescendo in lui il desiderio di abbandonare quel poco che aveva per consacrarsi
interamente al Signore in piena povertà.
La
scelta eremitica
L’occasione gli venne data dall’incontro con un certo Girolamo
Lanza che, da nobile e ricco che era, aveva lasciato la famiglia e le ricchezze,
vivendo con spirito francescano da eremita in Santa Domenica, non lontano da S.
Fratello, nei pressi di Caronia. tale scelta di vita praticata dai cristiani fin
dai primi secoli (si pensi a S. Antonio e a tutta la letteratura relativa ai
Padri del deserto) era ancora in vigore in alcuni luoghi anche in Sicilia:
eremiti erano stati S. Calogero, S. Cono, S. Corrado, S. Guglielmo, S. Nicolò
Politi e tanti altri di cui non sempre si è serbata distinta memoria.
Benedetto si accompagnò a questo Girolamo abbracciando un
austero regime di vita che all'esercizio dei consigli evangelici - castità,
povertà e obbedienza - aggiungeva un quarto voto, quello cioè di osservare per
tutto l'anno un regime di vita quaresimale di digiuni, di preghiere e di
penitenze.
Fin da
allora si manifestarono le sue singolari doti di uomo di Dio. Per quella
intuizione del soprannaturale che spesso i fedeli hanno, molti di quel contado
compresero che Frà Benedetto era uno spirito eletto che viveva in particolare
comunione e comunicazione col Signore. E per questo si recavano da lui per
raccomandarsi alle sue preghiere, per chiedere consiglio, per esserne consolati
nelle immancabili tribolazioni della vita.
La
frequenza di tali visite, metteva in crisi la stessa scelta di solitudine
propria degli eremiti, e per questo il Lanza si indusse ad abbandonare quel
luogo per trasferirsi con i suoi compagni in altri siti:
Platanella, nei pressi di Agrigento; Mancusa, tra Partinico e
Carini; Marineo, presso la Madonna della Dayna... ma poi finì per stabilirsi sul
Monte Pellegrino, presso Palermo, così chiamato proprio a motivo dei tanti
«pellegrini» o eremiti che vi abitavano.
Sul Monte
Pellegrino
Era
quello il luogo dove anche S. Rosalia era vissuta ai suoi tempi, cioè quattro
secoli prima, come eremita, ed il suo corpo, ancora non scoperto (lo sarà poi
nel 1625), si trovava sepolto in una di quelle grotte.
In
quei luoghi rimaneva ancora viva la memoria della santa fanciulla palermitana
che nell'epoca normanna aveva lasciato gli agi della Corte per dedicarsi a Dio,
vivendo in solitudine «povera di spirito, purissima di cuore». Anche lei era
stata prima in altri luoghi, ma poi era venuta a rifugiarsi sul Monte
Pellegrino, da dove poteva mirare ogni giorno la sua città di Palermo e pregare
per i suoi bisogni che, allora come ora, non dovevano essere né pochi né agevoli
da soddisfare.
Da
quel monte che, alto e armonioso si leva verso il cielo, circondato dal mare,
Benedetto poteva anch'egli contemplare Palermo e, per quanto non fosse la sua
patria, cominciò così ad amarla ed a pregare per i suoi abitanti i quali,
peraltro, non furono insensibili all'edificante premura di lui e di quegli
austeri penitenti. Era questo, del resto, il loro apostolato: splendere per le
loro virtuose azioni come città posta sul monte, come fiaccole sul candelabro;
essere lievito, essere profumo... «Come potrebbe dirsi cristiano chi non è così?
- si chiede S. Giovanni Crisostomo. - E se il lievito mescolato alla farina non
porterà tutto a fermentazione, è davvero lievito? E che dire di un profumo che
non investa quanti si accostano? Lo si chiamerà ancora profumo?...». questa
salutare influenza spirituale da parte di quegli eremiti e questo richiamo erano
vivissimi.
Perciò
la gente accorreva per raccomandarsi alle loro preghiere, ed in modo particolare
per visitare Frà Benedetto, la cui fama di austerità e di saggezza sempre più
spargeva da farlo già chiamare «il santo Moro» tratto singolare questo che
dimostra, ad un tempo, tanto la sua capacità ed amabilità nel farsi accettare ed
accostare da tutti, quanto anche l’apertura e la mancanza di pregiudizi da parte
della gente nei suoi riguardi, sia per il colore della pelle che per la
discendenza.
Morto
dopo qualche tempo Fra Girolamo Lanza che era stato l'ispiratore di quella
esperienza, tutti gli eremiti che vivevano nella zona decisero che solo
Benedetto era degno di essere eletto loro Superiore e per quanto egli cercasse
di esimersi da tale incarico, adducendo la sua insufficiente cultura e la sua
indegnità, pure, con insistenza fu indotto ad accettare e guidare i confratelli
nella singolare e non sempre agevole condizione di vivere nella solitudine ma di
sottostare ad alcune comuni norme di comportamento.
Una ubbidienza che
costa
Così
erano passati 17 anni di vita eremitica durante i quali Benedetto, esercitandosi
nelle virtù religiose, nel distacco di sé, nello spirito di sacrificio e di
ubbidienza, si era reso capace di aderire perfettamente alla volontà di Dio,
qualunque essa fosse, una volta che gli si fosse manifestata attraverso uno dei
suoi autorevoli canali.
L'occasione venne quando l'esperienza di vita solitaria di
questi eremiti, affiliati ai Francescani, già permessa dal Papa Giulio III nel
1550, diede in appresso a Roma motivo di un ripensamento, per cui nel 1562 Pio
IV, per mezzo di una lettera del Card. Rodolfo Del Carpio, Protettore dei Frati
Minori, emanò una disposizione con la quale veniva proibito il proseguimento di
quella vita eremitica e si prescriveva a quanti la praticavano di ritirarsi in
un Ordine Regolare Francescano, che poteva essere o quello dei Frati Minori o
quello dei Cappuccini. Cessando di essere eremiti ed entrando in uno di questi
Ordini Regolari, vi sarebbero stati accolti come veri e propri Religiosi,
sottoponendosi ai legittimi Superiori.
Fu
esemplare la condotta degli interessati al provvedimento; essi dimostrarono di
avere acquisito una buona formazione spirituale ubbidendo prontamente, pur col
rammarico di dovere interrompere quella vita che avevano vissuta come una
particolare ed ardua vocazione. Ma certamente il merito da essi acquistato per
avere ubbidito non fu inferiore a quello che avrebbero conseguito se tale
sacrificio non fosse stato loro richiesto.
Forse
anche oggi noi dovremmo essere capaci di percepire tali equivalenze, non
rimanendo così attaccati a personali giudizi o preferenze e così resistenti a
norme che saggiamente disciplinano i diversi stati di vita cristiana e
l'esercizio delle diverse attività e compiti dei fedeli nella Chiesa.
Benedetto fu alquanto incerto, dapprima, sulla scelta da fare e
volle raccogliersi in preghiera per chiedere alla Vergine Santa, di cui era
devotissimo, quale decisione dovesse prendere. Scendendo dal Monte Pellegrino,
venne in Cattedrale, in questa nostra Cattedrale palermitana, comprendendo che
in essa avrebbe ricevuto i lumi desiderati. Ed infatti, dopo essersi fermato a
lungo in preghiera davanti all'altare della Madonna, percepì, per una interiore
illuminazione, che la sua scelta doveva cadere nell'Ordine dei Frati Minori, e
fu in seguito a ciò che con tutta umiltà si recò al Convento di S. Maria di
Gesù, chiedendo di esservi accettato come fratello laico.
A S. Maria di
Gesù
Il
Convento era stato fondato nel 1426 dal Beato Matteo da Agrigento ed era noto
per l’autenticità della vita francescana che vi si conduceva. L’umiltà, la
semplicità, la povertà, la castigatezza dei costumi, lo spirito di penitenza, la
fervorosa preghiera, ma anche il quotidiano contatto con il popolo ed in
particolare con i più deboli e bisognosi, erano i tratti che distinguevano la
Comunità della quale Fra Benedetto venne a fare parte.
Ma,
come altrove era accaduto, anche qui la sua presenza finì per apparire come
quella di un Religioso particolarmente segnato da singolari doni spirituali. Per
questo impegnato, all’inizio, nell’umile ufficio di cuoco, il suo spirito di
sacrificio e la sua soprannaturale carità lo manifestarono come un autentico «uomo di Dio» ed a lui si cominciò ad
accorrere dalla città. Anche se ormai dispensato dal quarto voto del perenne
digiuno quaresimale, egli tuttavia ne continuava l'esercizio tanto più motivato,
insieme ad altre penitenze, quanto maggiore era il concorso dei fedeli presso di
lui e il ricorso alle sue preghiere.
Si
realizzava in lui la verità di quello che Maria aveva cantato nel Magnificat,
che il Signore cioè, «ha rovesciato i
potenti dai troni, ha innalzato gli umili». Frà Benedetto è proprio uno di
questi «indigenti sollevati dalla
polvere... rialzati dall'immondizia...». (cfr. Ps. 112), che vengono
preferiti ai potenti della terra e da essi, anzi, riveriti e consultati per la
loro saggezza nel giudicare e prudenza nel consigliare.
Nobili
palermitani, Prelati ed anche il Viceré Marcantonio Colonna venivano a trovarlo
nel Convento di Santa Maria per bisogni spirituali e materiali che li
affliggevano e così tanti altri del popolo, di cui parlano le testimonianze poi
raccolte nei processi di beatificazione e che attestano anche i numerosi prodigi
attribuiti all'intercessione del «santo
Moro» sia in vita che dopo la sua morte. È degno di nota rilevare come Frà
Benedetto non si valse mai delle sue conoscenze di persone influenti per
accettare o sollecitare favori; anzi, in più di una circostanza, non gradì e non
permise che si usassero riguardi a membri del Convento e della sua stessa
famiglia che avevano di che render conto alla giustizia. Un esempio, questo, che
a noi dice molto, richiamandoci, in tempi in cui ne abbiamo bisogno, al rispetto
degli ordinamenti esistenti e alla esclusione di ogni indebita ingerenza ed
influenza per determinare in senso favorevole gli avvenimenti in corso.
Superiore del
Convento
Di
uguale reputazione e venerazione egli godette presso i confratelli del Convento,
che edificava non solo per il suo esempio di osservanza religiosa, ma anche per
i suoi discorsi e ragionamenti che lasciavano trasparire una dottrina non certo
appresa dai libri e che lasciava sorpresi anche i Maestri di Teologia.
«Io so che Benedetto non sapeva né leggere né
scrivere – deposero al processo alcuni testimoni – però con tutto questo faceva
molti sermoni ai frati e particolarmente ai Novizi, spiegando ad essi molti
passi e difficoltà della Sacra Scrittura, con molta chiarezza ed edificazione
spirituale... soleva spiegare ai Novizi le lezioni della Sacra Scrittura che
erano lette a Mattutino, e in queste lezioni si intratteneva in lunghi discorsi
che sembravano ispirati dallo Spirito Santo».
Dei
Novizi fu anche nominato Maestro, cioè formatore, e svolse così bene l'ufficio
da sembrare che possedesse il dono della scrutazione dei cuori. Nel 1583 pur
essendo frate laico fu anche eletto, come già sul Monte Pellegrino, Guardiano,
cioè Superiore dei Religiosi, molti dei quali erano Sacerdoti, e seppe così bene
guidare con carità e dolcezza tutti i confratelli che molti da altre parti
chiedevano di andare a vivere da lui, cosicché fu costretto ad ampliare
l'edificio, sopraelevando un secondo piano e costruendo un nuovo braccio del
Convento, così come si presenta oggi.
Anche
quando si recò ad Agrigento, dove si svolgeva il Capitolo provinciale dei Frati,
lo precedeva una tal fama di sanità che fu accolto con calorose manifestazioni
di popolo. Eppure, quando terminò il tempo degli uffici per i quali era stato
eletto, tornò con grande naturalezza e semplicità alla sua primitiva mansione di
cuoco, ben sapendo che il valore e il merito del servizio di Dio non si misurano
dall’eccellenza dei compiti che vengono affidati, ma dall’amore e dalla fedeltà
con cui vengono esercitati.
Nel
Convento di S. Maria di Gesù, tranne un periodo di tre anni che passò in quello
di S. Anna nei pressi di Giuliana, trascorse tutta la sua vita di Frate Minore,
e lì il suo corpo riposò, deposto in luogo onorifico, dopo qualche anno dalla
pia morte che avvenne il 4 aprile 15 89.
La fama di
santità
La
fama di santità che era stata tanto diffusa durante la sua vita, si accrebbe
dopo la morte. II suo fu un «sepolcro
glorioso» per il continuo accorrere di gente, non solo dalla città di
Palermo, ma da ogni altra parte dell'Isola.
Già
nel 1592, quando fu eseguita la prima traslazione della tomba esterna alla
Sagrestia, il suo corpo fu trovato incorrotto ed odoroso, ed è di quello stesso
anno la prima istanza all'allora Arcivescovo di Palermo, Mons. Diego D'Ahedo,
perché fosse iniziato il processo di beatificazione.
Nel
1611 un'altra traslazione ebbe luogo, dalla Sagrestia nella Chiesa, e di essa si
occuparono tanto il Re di Spagna Filippo III, quanto il Cardinale Gianettino
Doria, Presule palermitano, mentre vive istanze al Papa Gregorio XV venivano
rivolte negli anni 1621 e 1622 dal successivo Re di Spagna Filippo IV e dal
Viceré di Sicilia, sollecitando la beatificazione del Servo di Dio.
Due
processi apostolici, l'uno redatto in Palermo e l'altro a S. Fratello, vennero
poi rimessi alla S. Congregazione dei Riti intorno al 1627.
È
interessante la_risposta che nel luglio di quell’anno dava Urbano VIII con la
sua lettera ai palermitani, riconoscendo la grande devozione da essi manifestata
per il corpo del Religioso Benedetto da S. Fratello. «La città di Palermo – scrive il Papa –
sembra ammaestrare le altre nazioni di quanta stima si debbano tenere i baluardi
dell’incolumità pubblica e i monumenti della gloria cristiana». Lo facesse
anche adesso!
Assicura poi il processo andrà avanti secondo le norme in
vigore, ed aggiunge l’augurio significativo «che codesta città dia i natali a personaggi
santi, con tanta facilità, con quanta pietà li venera…».
La
municipalità di Palermo – detta allora «il Senato - rompendo gli indugi, si
induceva nel 1652 ad emettere un solenne Decreto con il quale rilevando «che la fama di santità ammirabile del
siciliano Benedetto da S. Fratello si è sparsa oltre i confini di tutta la
città» lo eleggeva e nominava
«particolare intercessore», chiamandolo già, per conto suo, «Beato Patrono» ed ordinando feste che si
celebrassero ogni anno nella Chiesa di S. Maria di Gesù.
La
Canonizzazione
Nel 1713 nuove istanze per la Beatificazione ufficiale
vennero rivolte alla S. Sede sia dal Senato palermitano che dallo stesso
Arcivescovo, Giuseppe Melendez, e così ripresosi il processo si giungeva nel
1743 all'approvazione del culto e nel 1776 al riconoscimento dell'eroicità delle
virtù. Rimaneva la prova dei due richiesti miracoli, verificati i quali, con
Bolla di Papa Pio VII del 23 giugno 18 07, veniva proclamata la
Canonizzazione.
Nel documento, com'è d'uso, venivano indicate le
principali caratteristiche di quella santa vita e ci può servire il notare che
oltre agli abbondanti riferimenti alle virtù religiose praticate, alle
penitenze, all'umiltà, alla prudenza, in particolare rilievo viene messa la sua
fede e devozione eucaristica: «Non
desiderava nient’altro se non considerare e contemplare argomenti celesti e con
ogni scrupolo evitare qualsiasi offesa verso Dio, anche la più piccola. spesso,
quasi ogni giorno, si confessava e si comunicava: lunga era la preparazione al
banchetto divino e più lungo ancora il ringraziamento, dopo averlo
gustato…».
Da questo amore di Dio vien fatto derivare «il suo fervido amore verso il prossimo, del
quale desiderava l’eterna salvezza… Con sollecitudine e senza difficoltà
riceveva tutti quelli che andavano da lui per chiedergli consigli, anche quando
stava male, e a ognuno elargiva opportuni consigli e rimedi. Inoltre spesso
visitava i carcerati e gli infermi, offrendo loro tutti i servizi e le opere di
carità, fornendo anche qualche aiuto
ed esortandoli alla pazienza e a riporre in Dio la loro speranza... Egli quando
fu eletto Superiore del Convento di Palermo volle soprattutto che il portinaio
non respingesse alcun povero».
Le ricorrenti pesti e carestie di quell'epoca fornivano
occasioni particolarmente impellenti di soccorrevole
intervento.
La Canonizzazione avveniva insieme a quelle di S.
Francesco Caracciolo, di S. Angela Merici, di S. Coletta Boilet e di S. Giacinta
Marescotti. La data della memoria di S. Benedetto da S. Fratello veniva fissata
per il 4 aprile, come è ancora oggi.
Può esser interessante anche notare che S. Benedetto «il
Moro» è il primo santo siciliano per il quale si sia svolto un regolare processo
canonico di Beatificazione e Canonizzazione.
Un messaggio per
l'oggi
Quale significato può avere la celebrazione di questo
quarto Centenario? Quella, penso, di mostrare come nonostante il passare del
tempo e il mutare dei tempi, le autentiche qualità e virtù di una persona santa
vengono sempre riconosciute: l'oro rimane oro; l'impiego di una vita vissuta
nella semplicità, nell’amore e con impegno di rendersi sempre utile agli altri
rimane un valore nel quale si può sempre credere e fare
assegnamento.
E ci conforta anche pensare e sapere che, se tante
persone ci sono nel mondo che fanno parlare di sé per le loro malefatte, non
minori di numero sono quelli che nel silenzio operano il bene e non chiederanno
mai nessun riconoscimento per i loro servizi resi
all’umanità.
Questa nostra Palermo ha bisogno di tali richiami, di
tali esempi e di tale speranza. L’augurio di Papa Urbano VIII attende sempre di
compiersi perché alla città non manchino mai uomini di buona volontà che nel
nome di Cristo si facciano sostegno sei deboli e promotori della giustizia e
della pace. I tempi di oggi sono certamente diversi da quelli in cui visse S.
Benedetto, ma taluni problemi materiali e molti spirituali e morali sono sempre
gli stessi e forse anche aggravati. La semplicità del Santo e la sua bontà ci
mostrano la via attraverso la quale è sempre possibile incoraggiare i buoni e
dare sollievo ai sofferenti.
La presenza, poi, di tanti stranieri, dì colore, venuti
dalle diverse ed anche remote regioni della terra a vivere e cercare lavoro
nella nostra patria, ci impegna ad essere così accoglienti come la Sicilia e
Palermo lo furono per Benedetto.
È in tal senso che auspichiamo possa aver luogo, proprio
in una Casa francescana, la progettata apertura di un Centro di prima
accoglienza ed assistenza per lavoratori forestieri, i quali sentano di essere
rispettati, considerati ed amati da questa città, per le cui strade un giorno si
aggirò, venerato e benefico, un umile fraticello nero: Benedetto il
Moro!
Sia lui ad ottenere per tutti le più ampie celesti
benedizioni.
domenica 3 febbraio 2013
I DIAVOLI DELLA ZISA
La fama di Guglielmo II di "grande costruttore" di mirabili opere, è dovuta, non solo per il Duomo di Monreale, ma anche per la Zisa, che egli ultimò, avendola iniziata suo padre Guglielmo I. Il palazzo della Zisa già nel nome è opera bellissima, infatti Zisa viene dall’arabo azizah, che vuol dire, appunto, splendido.
Naturalmente è legata alla Zisa una leggenda popolare. Nella città di palermo esiste La Zisa, un palazzo che è un castello. Dall'ingresso, con oro e pitture, si giunge al centro, dove si trova una bellissima fontana di marmo con una cascata d’acqua fresca e incontaminata che rasserena l'animo. La Zisa è coperta da un incantesimo, che vuole che vi sia nascosto al suo interno un favoloso tesoro. A proteggerlo sono chiamati i diavoli dipinti nel bellissimo ingresso, che impediscono di trovarlo ai cristiani. Il giorno del 25 marzo, giorno dell’Annunciata, guardando attentamente la pittura, si possono vedere i diavoli muovere la coda e fare smorfie. Essi sono talmente tanti nel dipinto che non si possono contare, come non si può contare il tesoro che essi custodiscono. Quando un coraggioso troverà la soluzione per «sbancare» il tesoro misterioso, allora anche Palermo non sarà più povera.
Il Pitrè, a proposito del fatto che effettivamente i diavoli non si possono contare, addebita la cosa al modo come essi sono stati dipinti. Poichè alcune figure sono molto piccole, e alcune altre non intere, ne deriva che il conto è molto difficoltoso, tanto da non tornare mai.
La figura di Guglielmo II è ricordata, comunque, oltre che per la cattedrale di Monreale e la Zisa, anche per le buone leggi emanate (celebre quella che puniva l’adulterio) e la sua tolleranza, anche religiosa. Celebri le sue parole: «Ognuno preghi il Dio in cui crede», espressione modernissima e straordinaria per i tempi. Perfino Dante, nel ventesimo canto del Paradiso, lo definisce «il giusto rege», e innumerevoli sono le citazioni positive su di lui nella poesia dotta siciliana. | ||
Iscriviti a:
Post (Atom)