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giovedì 27 dicembre 2012

Rocca Busambra


Rocca Busambra (1613 m), è il rilievo più alto del gruppo montuoso dei monti Sicani, nonché la cima più alta della Sicilia occidentale. È situata nel territorio di Godrano in provincia di Palermo, .
Si presenta come una cresta, o un bastione roccioso che si erge sulle verdi colline del bosco della Ficuzza. Il rilievo appare molto frastagliato,soprattutto sul versante settentrionale, con pareti verticali, e tratti strapiombanti di impressionante altezza. Il versante meridionale digrada invece più dolcemente. Notevole è anche la prominenza sul territorio circostante, in gran parte collinare, fattore che contribuisce a dare alla rocca l’aspetto di un rilievo isolato e maestoso.
Dalla vetta si gode di un ampio panorama a 360° che abbraccia un’ampia porzione della vallata e del territorio circostante.

sabato 22 dicembre 2012

Palazzo Steripinto

Tra le antiche costruzioni abitative è sicuramente la più interessante, sotto ogni punto do vista, specialmente dal punto di vista dello stato di conservazione. Dall'incisione sul portale d'ingresso, si evince che fu costruito nel 1501. Ad opera di Antonio Noceto, nipote del famoso Botanico Gerardo Noceto. La fusione tra diversi stili del tempo fa sì che l'edificio sia tra i più interessanti della Sicilia del suo tipo. Il decoro realizzato secondo i dettami dello stile gotico - catalano, con ormai tendenze rinascimentali, fa sì che la costruzione si appropri di tutti questi meritati apprezzamenti. Il nome del palazzo "Steripinto" ha origini sicuramente dalla fusione di due parole "hosterium", che indica un palazzo fortificato e "pictum" che significa dipinto che nel caso del palazzo steripinto forse indica il particolare decoro tipico di questa costruzione. Il palazzo steripinto si presenta come se fosse una costruzione costituita da unico blocco, dando al primo impatto l'impressione di una grande e inespugnabile fortezza. Ermetica imponenza che si estende sino all'altezza del piano, che ospitava i nobili, l'intera struttura, infatti, presenta una serie di bugne in pietra con forma piramidale con il vertice rivolto verso l'esterno. Le bugne si trovano ordinate ed allineate, per tutta la superficie dell'intera struttura, interrotte soltanto al piano che ospitava i nobili da tre bifore gotiche, che presentano l'effige della famiglia nobile dei noceto riportando sulle colonnine delle bifore l'immagine di un albero di "Noce", confuso in passato con una palma, simbolo della famiglia "Tagliavia". Il portale principale si trova allineato con la bifora centrale, si presenta con archi bilobati e stipiti profondamente scanalati, ancora la facciata principale presenta sui lati del portale, due piccole finestre rettangolari poste quasi sul finire del perimetro frontale. Subito sull'estremità del portale si trova lo stemma nobiliare della famiglia che per ultima possedette l'edificio, si tratta dello stemma nobiliare della famiglia "Lucchesi Palli". A spezzare l'imponenza e quel senso d'impenetrabilità dato dal tipo di costruzione dalla bugne a forma piramidale con il vertice rivolto verso l'esterno concorrono due colonnine realizzate in marmo inserite in due angoli della struttura stessa. Di questi due inserimenti architettonici, si pensa siano stati apposti in un secondo tempo, forse dopo esser stati recuperati da edifici demoliti. Nota dolente dello stato di conservazione, della struttura del palazzo steripinto, tocca il suo aspetto interno che non si presenta di importante rilevanza architettonica, dovuto ad interventi che ne hanno modificato la struttura nel tempo.
Palazzo Steripinto

domenica 16 dicembre 2012

castello di aci


Durante il periodo della colonizzazione greca prima, e della dominazione romana poi, sicuramente la rocca sulla quale si erge il castello normanno fu frequentata per la sua posizione strategica, che permetteva il controllo del mare e del passaggio delle navi dirette verso lo stretto di Messina.
Sebbene non si siano conservati resti di strutture di tale periodo, a causa probabilmente della distruzione delle fortezze costiere operata dagli Arabi, gli scrittori antichi ci hanno lasciato il ricordo di famose battaglie navali combattute in queste acque (Diodoro Siculo ci ricorda quella tra lmilcone cartaginese e Leptine siracusano).
Anche i rinvenimentì archeologici, soprattutto quelli sottomarini, esposti nelle vetrine del Museo Civico, attestano l'antica frequentazione di questi luoghi.

L'arrivo degli Arabi fu segnato da un periodo sanguinoso di guerre e distruzioni, testimoniato dagli stessi scrittori arabi.
La fortezza sulla rupe fu distrutta dall'emiro lbrahim nel 902. Non si sa con esattezza se il Califfo Al Moez, nel 909, fece riedificare sulla rupe una fortificazione (kalat), che doveva far parte di un più vasto sistema difensivo atto a proteggere l'abitato di Aci (Al-Yag). Tra il 1071 e il 1081, nell'ambito della conquista dell'isola da parte dei normanni Roberto il Guiscardo e Ruggero d'Altavilla, si deve porre la costruzione del castello di cui ancora oggi si possono visitare le strutture superstiti ed ammirare gli splendidi archi a sesto acuto. Il castello fu in seguito concesso ai vescovi di Catania che proprio qui, nel 1126, ricevettero le sacre reliquie di Sant'Agata, riportate in patria dalla città di Costantinopoli dai cavalieri Goselino e Gisliberto. Sono ancora visibili, all'interno di un ambiente che probabilmente era una piccola cappella, i resti di un affresco che ricorda appunto la consegna delle sacre reliquie della Santa al vescovo Maurizio.
L'affresco, purtroppo, versa in uno stato di avanzato degrado, soprattutto a causa di "romantici" visitatori che hanno graffito su di esso il loro nome.
Nel l169 una disastrosa eruzione investì il paese di Aci e raggiunse perfino la rupe che fino ad allora emergeva dal mare, isolata dalla terraferma; la colata colmò il braccio di mare antistante la rupe, rendendo inutile il ponte levatoio che serviva a congiungere il castello al paese.
Il possesso del castello rimase ai vescovi dì Catania fino al 1239.
Quando però il vescovo Gualtiero di Palearia fu rimosso dal suo incarico da Federico II di Svevia, il castello entrò a far parte del Demanio Regio. Poco più tardi, durante il breve periodo angioino (che si concluse con la rivolta dei Vespri Siciliani del 1282), il castello tornò nuovamente in possesso dei vescovi di Catania.

Dalla fine del XIII secolo fino all'età dei Viceré, il castello fu testimone della lunga lotta che contrappose gli aragonesi di Sicilia agli angioini di Napoli. Federico III d'Aragona, re dì Sicilia, tolse il fondo di Aci ed il relativo castello ai vescovi di Catania e lo concesse all'ammiraglio Ruggero di Lauria come premio per le sue imprese militari.
Quando però quest'ultimo passò dalla parte degli angioini, il re fece espugnare il castello (1297) entro il quale si erano asserragliati i ribelli. Per riuscire nell'impresa il re fece costruire una torre mobile, dì legno, chiamata "cicogna" (essa era alta quanto la rupe lavica ed aveva un ponte alla sommità per rendere agevole l’accesso al castello). Nel 1320, su concessione ancora di Federico III, il possedimento di Aci andò a Blasco d'Alagona ed in seguito al figlio Artale. Nel 1354, durante un assalto del maresciallo Acciaioli, inviato in Sicilia per ordine di Ludovico d'Angiò, il castello fu espugnato e devastato il territorio di Aci. Artale in breve tempo organizzò una flotta, usci dal porto di Catania e vinse gli angioini in una dura battaglia navale condotta nel tratto di mare tra Ognina ed il castello. In seguito a questa battaglia, passata alla storia come "lo scacco di Ognina", il castello fu liberato.
Nel 1396 il castello, allora in possesso di Artale II d'Alagona, fu nuovamente espugnato da Martino il Giovane (nipote di Pietro lV, re d'Aragona), il quale era sbarcato in Sicilia dopo aver contratto matrimonio nel 1391 con la regina Maria, unica figlia di Federico lV ed ultima erede al trono aragonese di Sicilia.
Martino, approfittando dell'assenza di Artale II, riuscì nell'impresa dopo aver guastato il sistema di approvvigionamento idrico del castello, mentre l'Alagona, che aveva fatto di Aci e di Catania l'epicentro della sua accanita resistenza contro la presenza di Martino in Sicilia, raggiunto frettolosamente il suo possedimento non poté far altro che constatare la propria sconfitta e la perdita del castello, ormai dato alle fiamme. Spesso d'estate il Comune di Acicastello ripropone la rappresentazione di tale avvenimento storico, che per la sua suggestività richiama grande afflusso di pubblico.
Martino fece del castello la sua stabile dimora insieme a Bianca di Navarra divenuta sua sposa nel 1402 dopo la morte della prima moglie, la regina Maria. In questo periodo il castello conobbe un breve periodo di splendore in cui furono organizzate feste e lussuosi ricevimenti. Alla morte di re Martino, Bianca, nominata vicaria di Sicilia da Martino II succeduto a Martino il giovane, lasciò il castello a Ferdinando il Giusto di Castiglia, nuovo re di Sicilia (1412).

Nel 1416 il primo viceré di Sicilia, Giovanni di Castiglia, ordinò alcune opere di ristrutturazione del castello, per le quali stanziò la cifra di 20 onze d'oro.
Successivamente, nel 1421. il viceré Ferdinando Velasquez divenne il nuovo signore del castello e del feudo di Aci, per il quale pagò al re Alfonso il Magnanimo la somma di 10.000 fiorini. Alla morte del Velasquez, il castello tornò al demanio regio di re Alfonso, che lo rivendette al suo segretario Giambattista Platamone. Il successore di re Alfonso, Giovanni Il d'Aragona, rivendicò il possesso del castello a Sancio, discendente del Platamone. Questi si rifiutò di restituire il castello, che di conseguenza fu assediato ed espugnato in breve tempo; Sancio e suo figlio furono catturati e segregati nel Castello Ursino di Catania, dove morirono. Durante il XVI secolo il castello passò nelle mani di diversi privati, finché fu adibito a sede di una guarnigione che aveva il compito di segnalare i pericoli provenienti dal mare alle popolazioni interne ed alle altre fortificazioni vicine, poste lungo la costa. Allo stesso tempo il castello assolveva la funzione di prigione: si hanno testimonianze delle precarie condizioni in cui versavano i detenuti, che spesso venivano lasciati morire d'inedia nelle segrete. Anche un tesoriere comunale di Aci, Miuccio di Miuccio, incarcerato nel 1595 per debiti contratti con il Municipio, seguì la stessa sorte.
Interessante é anche la notizia che nel 1571 ventiquattro prigionieri preferirono arruolarsi nella spedizione navale che condusse alla battaglia di Lepanto, piuttosto che continuare a stare rinchiusi nelle tetre prigioni del castello. Una tappa fondamentale nella storia di Aci e del suo castello é l'anno 1528, quando l'imperatore Carlo V la rese libera da ogni vassallaggio erigendola a Comune, dietro il pagamento di ben 72.000 fiorini. Nel 1571, inoltre, si diede incarico a don Vincenzo Gravina di definire lo stemma della città, rimasto così fino ad oggi; lo stendardo veniva custodito all'interno del castello e portato fuori per la festa patronale.
Nel seicento il castello conobbe un rinnovato splendore, dovuto anche alla radicale opera di ristrutturazione voluta nel 1634 dal re Filippo III, che per l'occasione fece apporre una lapide marmorea all'ingresso con la dicitura:
"PHILIPPUS III DEI GRATIS
REX HISPANIARUM
ET INDIARUM
ET UTRIUSQUE SICILIAE
ANNO DIVI 1634".
Esso venne anche dotato di artiglieria, della quale é probabile testimonianza il cannone murato sulla terrazza superiore. Nel 1647 il castello venne venduto da re Filippo IV di Spagna a Giovanni Andrea Massa, che lo pagò 7.500 scudi.
Il disastroso terremoto che sconvolse la Sicilia orientale nel 1693 recò al castello ingenti danni, che furono tuttavia riparati negli anni successivi dai discendenti del Massa.

Poche le testimonianze relative al castello nel XVIII secolo, se si esclude la leggenda di un povero cacciatore che venendo un giorno a cacciare nelle vicinanze del castello, uccise per errore una gazza di proprietà del governatore del castello, uomo crudelissimo. Questi fece arrestare il cacciatore e lo fece segregare nelle prigioni del castello, dove rimase ben 13 anni. Un giorno, saputo dell'arrivo del Duca Massa, proprietario del castello, il cacciatore compose un canto in suo onore; quando lo udì, il duca volle conoscerlo e, appresane la triste storia, diede subito ordine che venisse scarcerato.
Nel XIX secolo il castello entrò a far parte del Demanio Comunale, ma nel 1818 un terremoto provocò nuovamente danni così gravi che esso non poté più essere utilizzato come prigione. Carenti le notizie storiche sulla seconda metà dell'ottocento; il castello tuttavia ispirò in questo periodo a Giovanni Verga la novella "Le stoffe del Castello di Trezza" che, tra amori, tradimenti e fantasmi, narra le affascinanti vicende di don Garzia e di donna Violante.

Agli inizi del XX secolo il castello di Acicastello divenne deposito di masserizie; durante la seconda guerra mondiale una grotta della rupe venne usata come rifugio antiaereo.
Negli anni 1967-69 la Soprintendenza ai Monumenti della Sicilia Orientale restaurò il castello; si trattò tuttavia di un restauro poco filologico, del quale rimane in ricordo una lapide all'ingresso.
Dal 1985, anno di inaugurazione del piccolo museo posto all'interno del castello, grazie alla promozione di diverse iniziative culturali (mostre, convegni, visite guidate, concerti, studio del materiale paleontologico ed archeologico), esso sta via via assumendo sempre più la fisionomia ed il ruolo che più si addicono ad un monumento storico ed architettonico di tale importanza: non una muta testimonianza storica, ma il centro propulsore di un vivo e continuo dialogare tra i contemporanei ed il passato.


Castello Di Aci, panoramica da lungomare (da sud)

venerdì 14 dicembre 2012

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Santa Eustochia



  

A Messina nel monastero di Montevergine sembra che accada un fatto inspiegabile: al cadavere della suora Eustochia Calafato morta del 1491 crescono le unghie e i capelli, che ogni anno, nel giorno dedicato a lei, le vengono tagliati.

Esmeralda Calafato nacque nel 1837 da una nobile e ricca famiglia messinese. Nonostante fosse una ragazza dotata di rara bellezza non si interessava del mondo, vivendo esclusivamente una intensa vita spirituale. Nell'adolescenza un giovane signore si innamorò perdutamente della ragazza e lei, per evitare tentazioni, scappò via di casa e andò in un monastero, quello di Basicò, dove abbandonò il suo nome per prendere quello di Eustochia; ma lei desiderava una vita più intensamente spirituale e, per le sue idee, si scontrò con le altre suore che non la pensavano come lei.

Allora cominciò a chiedere con insistenza dei soldi ad un ricco zio e, quando finalmente li ottenne, potè fondare il monastero di Montevergine che ancora esiste nella via Ventiquattro Maggio. Finalmente soddisfatta, Santa Eustochia visse qui come desiderava fino all'età di 51 anni.

Il suo comportamento fu sempre pio e devoto. Si dice che lo spirito della Beata Eustochia, credendo di fare cosa gradita, avverta le suore della loro prossima morte parecchie settimane prima: colei che si avvicina al sonno eterno sente un rumore cupo e particolare: significa che la sua morte è vicina.

La Santa aveva previsto che un giorno a Messina si sarebbe versato molto sangue. Dopo alcuni anni dal terremoto il monastero di Montevergine venne abbattuto e un funzionario decise di portare il cadavere della beata Eustochia al cimitero, ma egli poco dopo morì. Il suo successore decise più saggiamente di conservare la precedente disposizione del monastero continuando ad alloggiare il cadavere della beata Eustochia.

Dolmen


dolmen sono megaliti del neolitico costituiti da pietre infisse nel suolo che sorreggono una tavola di pietra orizzontale. Lo stesso nome dolmen deriva dall'unione delle parole bretoni taol (tavola) e men (pietra). La tavola di pietra orizzontale è anche detta tempio cosmico e rappresenta la volta del cielo. Sono monumenti sepolcrali, tombe individuali o collettive, a camera singola. In alcuni casi i dolmen sono anche parte di complessi architettonici più grandi, come nel caso di Stonehenge (Gran Bretagna) ed hanno funzioni astronomico-religiose. I dolmen sono realizzati in pietra grezza e, in alcuni casi, appaiono sulla roccia delle incisioni concentriche o figure umane schematizzate. In origine i dolmen sono anche parzialmente ricoperti da un tumolo di protezione. Le tombe a camera collettiva sono spesso riutilizzate per periodi di tempo molto lunghi, probabilmente ad uso delle stesse famiglie, e talvolta anche per diversi secoli. Essendo monumenti sepolcrali di prestigio è probabile che siano destinati soltanto agli uomini più importanti delle comunità. Oltre ad avere una funzione di sepoltura i dolmen rappresentano la volontà degli uomini di segnalare l'ingresso in una zona sacra. Nel neolitico i dolmen, come anche i menhir, si presentano all'occhio del viandante come opere maestose ed imponenti che colpiscono ed incutono timore e rispetto. Sulla base dei reperti archeologici è anche probabile che tali sepolcri collettivi siano luoghi ove viene svolta la funzione religiosa della comunità, un luogo ove tutti si raccolgono intorno agli avi per poter soddisfare i propri bisogni di spiritualità. Nel corso dei secoli successivi si perde completamente la memoria dei dolmen, i quali cadono in un profondo stato di oblio e di mistero che ancora oggi li avvolge. Spesso i druidi delle popolazioni celtiche, pur non avendo alcun contatto con le popolazioni che li hanno innalzati, continuano ad utilizzarli come luoghi sacri per praticare le proprie funzioni religiose. Da questa pratica celtica, molto più recente rispetto alla costruzione dei megaliti, deriva l'attuale visione occidentale dei dolmen come luoghi magici e misteriosi. I dolmen sono realizzati dall'uomo nel neolitico e nell'eneolitico in Europa, tra il V e il III millennio avanti Cristo, in particolar modo in FranciaSpagnaItaliaIrlanda e Gran Bretagna. I dolmen sono rinvenuti anche in estremo oriente dove la pratica di innalzarli si prolunga fino al I millennio avanti Cristo.

La Basilica Collegiata di S. Sebastiano


San Sebastiano

Sita in Piazza Lionardo Vigo nel cuore della città di Acireale, fu costruita nel 1600 nel luogo in cui in passato sorgeva un’antica edicola dedicata al Santo Martire. La Basilica fu anticamente restaurata e abbellita nel 1705 dopo i danni causati dal terremoto del 1693. Recentemente la Chiesa è stata oggetto di restauro  e riconsegnata alla città in tutto il suo antico splendore. La maestosa facciata in stile barocco del XVII secolo è opera di Angelo Bellofiore, mentre i lavori ad intaglio delle colonne, dei pilastri e dei cornicioni di pietra sono di Diego e Giovanni Favetta.
Il settecentesco prospetto è preceduto da una balaustrata dove sono collocate dieci statue dei profeti del Nuovo e del Vecchio Testamento, realizzate da Gian Giovanni Marini su disegno di Paolo Vasta. Gli ordini superiori sono arricchiti dalla bellezza di fastosi angeli con ghirlande e figure antropomorfe.
L’interno, a croce latina a tre navate diviso da pilastri, è arricchito da numerose decorazioni di Antonio Filocamo e Giacinto Platania,  oltre agli splendidi  dipinti di Paolo Vasta e Francesco Mancini che illustrano gli episodi più significativi della vita del santo.
Gli affreschi eseguiti nella volta della navata centrale sono di Giuseppe Sciuti. Nel braccio destro del transetto è custodito il pregevole fercolo d’argento settecentesco contenente il simulacro di San Sebastiano la cui festa ricorre il 20 Gennaio. Inoltre la basilica custodisce anche una copia della Sacra Sindone, esposta solo raramente al pubblico.

giovedì 13 dicembre 2012

Castellaccio di Monreale



Il Castellaccio di Monreale sorge sulla sommità del Monte Caputo (766 metri s.l.m.) che domina la sottostante Monreale e l'entroterra. Il complesso castrale si presenta come un lunghissimo edificio (circa 80 x 30 metri) munito, in modo irregolare, da 4 torri rettangolari sul fronte occidentale, una torre mediana ed un torrione d'accesso sul lato orientale.
Poche aperture si aprono nei muri di cortina: qualche monofora ogivale, delle feritoie lunghe e strette e due porte d'ingresso situate nella facciata settentrionale. I muri (spessore medio di 1,50  metri) sono costruiti in modo irregolare con l'impiego di blocchi calcarei, appena sbozzati sulla faccia a vista. L'interno è diviso in due settori: il primo (residenziale) si articola intorno ad un cortile con numerosi ambienti, stretti ed allungati, ma oggi senza copertura; il secondo (monastico), raggiungibile tramite un lungo e stretto corridoio, è composto da un altro cortile delimitato da stilobati (sicuramente un chiostro) e da una chiesa triabsidata, in parte impiantata su una cisterna.
Il carattere militare più che monastico è comunque evidente nella posizione dominante del monumento, ma soprattutto nei suoi aspetti costruttivi ed architettonici, come lo spessore dei muri, le numerose torri di cortina, le feritoie molto strombate e la torre d'ingresso con accesso 'a baionetta'. D'altronde, le notizie storiche confermano la funzione militare del castello fino a tutto il XIV secolo. Il completo abbandono inizia alla fine del XVI secolo.
Oggi il Castellaccio è in discreto stato di conservazione ed è divenuto rifugio alpino, gestito proprio dal Club Alpino Siciliano che ne garantisce la manutenzione.

STORIA


Il Castellaccio di Monreale viene edificato nell'XI secolo, anche se la sua esistenza è documentata da una carta del Duecento. Antico convalescenziario dei benedettini, presenta un'impianto architettonico medioevale con alte mura, torri e feritoie, ad evidenziarne anche il suo ruolo di baluardo difensivo contro le incursioni arabe.
Nei secoli successivi alla sua costruzione, il castello venne danneggiato dal passaggio delle truppe di Giovanni Chiaromonte. Nel XV secolo passò ai vescovi di Monreale e visse così secoli pacifici e tranquilli.
Castellaccio Di Monreale, panoramica

castellaccio di Lentini


Il Castellaccio di Lentini possiede la forma di una rupe calcarea dalla sommità piatta, posta al centro di un sistema fortificato che comprende a nord-ovest il colle Tirone e a sud-est il colle Lastrichello. Due profondi fossati dividono la fortezza dalle due alture. L'isolamento si accentua a nord e a sud, dove mura a strapiombo isolano l'intero complesso dalla Valle del Crocifisso (a settentrione) e dalla Valle di S. Mauro (a meridione).
Il fronte meridionale del Castellaccio digrada verso la Valle S. Mauro con un andamento a scarpa. I tre rimanenti lati mostrano un maggiore intervento dell'opera umana. Il fronte settentrionale si getta a strapiombo verso la Valle del Crocifisso, con una parete pesantemente scalpellata e coronata, sulla sommità, dall'addossamento di conci calcarei, formanti la base di un'opera muraria. L'angolo nord-ovest si distingue per la presenza di una evidente rientranza, probabilmente ricavata per una precisa ragione difensiva. Si giunge così ai lati di oriente e occidente: questi due lati si distinguono grandemente per la presenza di due profondi fossati, tagliati nella rupe. La prima possiede una lunghezza di circa 70 metri e una profondità di 10/15 metri.
Essa divide il Castellaccio dal Colle Tirone. Il secondo fossato, che separa la fortezza dal Lastrichello, nella porzione nord misura circa 30 m. in lunghezza, mentre la porzione sud si allarga verso la valle S. Mauro a dismisura. Entrambi i fossati possiedono una ulteriore caratteristica, presentano due istmi, tagliati nella roccia e che un tempo dovevano rendere possibili le comunicazioni dall'interno della fortezza verso l'esterno e viceversa. L'istmo che congiunge al Tirone ha una lunghezza di m. 20 e una larghezza di m. 4 e presenta lungo la porzione mediana un taglio trasversale di m. 5,80, sul quale doveva innestarsi un ponte levatoio. L'istmo che collega al Lastrichello, possiede una lunghezza simile al primo, ma non offre alcun tipo di taglio trasversale.
Il fronte occidentale del Castellaccio si affaccia sul fossato del Tirone; quivi non esistono ulteriori opere di difesa, poiché l'intera rupe è stata intagliata, tanto da formare essa stessa un baluardo contro un ipotetico assalitore. La parete rocciosa qui raggiunge un'altezza di circa 20 metri e si distingue, inoltre, per l'ulteriore presenza di tre grandi tagli strombati, operati ad eguale distanza. Questi tagli hanno le loro bocche in corrispondenza della cortina muraria ovest (quasi del tutto scomparsa) e possiedono una profondità e una larghezza di circa un metro. Le loro proporzoni aumentano man mano che procedono verso il basso, fino a formare grandiosi cunei, che donano alla parete un curioso effetto decorativo. Si tratta, presumibilmente, di ampie caditoie, utili agli assediati per lanciare massi o liquidi roventi contro possibili assedianti, tanto arditi da tentare l'ascesa alla fortezza da questo versante.
Sempre lungo il fronte occidentale, circa a 5 metri dal margine della rupe, si conservano le tracce di un altro grande muro, la cui lunghezza complessiva è di oltre 30 metri, con una interruzione mediana, interpretabile come un ingresso. Lo spessore di questo muro raggiunge i 2,40 metri, mancante però del rivestimento di conci calcarei squadrati, forse spoliati, insieme con il quale avrebbe presumibilmente raggiunto i 2,60 metri, spessore canonico delle fabbriche sveve a carattere militare. Questa opera muraria potrebbe relazionarsi ad una delle tre torri, citate nella lettera a Riccardo da Lentini, quale ad esempio la torre ottagona, ricordata dall'abate Vito Amico.
Il fronte settentrionale non si presenta egualmente conservato. Qui, in più punti, la parete rocciosa ha subito frane, anche di notevole entità, che ne hanno pregiudicato l'altezza e il taglio verticale, che si preserva, come in precedenza è stato detto, solo nell'angolo nord-ovest. In tale punto si conservano tracce della cortina muraria, composta, anche in questo caso, da conci squadrati, allineati in compatte assise (sei in tutto), che riprendono la verticalità artificiale della parete rocciosa. Il medesimo muro, osservato dal fronte interno, si presenta caratterizzato da due feritoie sovrapposte e conservato per quattro assise di grossi blocchi squadrati, per un'altezza complessiva di 1,85 metri. Solo in tempi recenti, sul limitare nord del Castellaccio è stata individuata una struttura semicircolare, interpretata come l'abside di un edificio sacro, presumibilmente la cappella citata nel documento angioino del 1273. Di essa si conservano solo poche assise a vista e necessiterebbe di un'azione di attento sterramento per comprendere meglio i lineamenti della struttura.
Press'a poco al centro del piccolo pianoro esiste l'ingresso per il sotterraneo del castello, solo in tempi alquanto recenti dissotterrato e restaurato. Il sotterraneo presenta una scala di accesso, coperta da volta a botte, innestata al centro del lato orientale, un orientamento nord-sud e misure di 16,72 x 5,58 metri. Non è dato sapere se la stanza ipogea è stata ricavata dal taglio della roccia: il rivestimento in muratura, infatti, non consente di confermare o smentire tale ipotesi. I lati lunghi della struttura si dividono in cinque porzioni, ciascuna aventi una larghezza di 3 metri, per la presenza di quattro semipilastri, solcanti la volta e svolgenti una funzione quasi del tutto decorativa. Non è, infatti, possibile interpretare tali semipilastri alla maniera di costoloni, poiché non possiedono una funzione architettonica di sostegno. Essi, inoltre, hanno subito di recente un intervento di restauro (chiaramente esteso a tutto il sotterraneo) che ha ricostruito il loro percorso fino al culmine della volta, poiché in precedenza essi si conservavano solo sino all'altezza del piedidritto.
Ancora, i semipilastri si impostano su di un banchinamento perimetrale, similmente a quanto si può osservare al Castel Maniace ed alla Basilica del Murgo, e misurano, sino alla linea di imposa della volta, in altezza 2,87 metri. Le pareti si compongono di 9 assise di conci, legati da malta cementizia, ben squadrati e con misura massima di 0,45 x 0,70 metri. Simile struttura presenta la volta, con leggera ogiva, costituita da conci squadrati della misura media di m. 0,30 per 0,65. La camera sotterranea presenta, inoltre, i resti di un efficace sistema di areazione, composto, per ciascuna delle cinque sezioni, da una lunga feritoia centrale strombata, più altre laterali di minori dimensioni, per un totale di 16 caditoie. Bisogna segnalare, anche in questo caso, la presenza di marchi dei lapicidi in quei conci della muratura del sotterraneo non ancora troppo corrosi.
E' possibile che questo ambiente ipogeo fosse collegato, attraverso camminamenti segreti, ad alcune grotte che si trovano alla base del Castellaccio: la più famosa fra tante è la "Caverna delle Palle", che si innesta all'interno della rupe per oltre 30 metri, mantenendo una larghezza media di 3,40 metri. All'estremità di questo ambulacro si dipartono altre diramazioni secondarie, le quali non paiono del tutto esplorate. Inoltre la copertura dell'antro principale offre la presenza di un buco occluso, che facilmente potrebbe condurre alla monumentale camera ipogea. Infine rimane la problematica legata all'approvvigionamento idrico: esso è un difetto posto in evidenza anche da alcune fonti.
Certamente all'interno del recinto fortificato dovevano esistere più cisterne, a servizio della popolazione del castello. Due invasi esistono tutt'ora, per quanto interrati, uno limitrofo al vano sotterraneo, l'altro prossimo al muro settentrionale. Pare, comunque, che le due cisterne siano poco profonde e insufficienti per l'intera fortezza. Doveva esservi qualche altro invaso, certamente più capiente; purtroppo lo sconvolgimento e l'interramento generale delle strutture non consente ulteriori ricerche, almeno per il momento.
La prima volta che visitammo il Castellaccio era il 2004, la zona archeologica versava in un completo stato di abbandono: piante infestanti, spazzatura, staccionate divelte e muri pericolanti. L'incuria del tempo e soprattuto dell'uomo completavano poi lo sfacelo di uno dei castelli più affascinanti e misteriosi di Sicilia. Dalla nostra ultima visita (peraltro sempre caratterizzata dalla chiusura dell'area archeologica) abbiamo potuto constatare che l'area archeologica è stata soggetta ad alcuni lavori di restauro e di consolidamento.

questa è la storia del castello svevo di catania o ursino


Il castello Ursino ebbe origine con la costruzione di una 'roche' da parte dei Normanni, per controllare la popolazione musulmana della città. Questa prima fortezza sorse in un luogo diverso da quello prescelto più tardi per l'impianto del Castello, da alcuni studiosi identificato a Montevergini. Di tale fortilizio normanno non restano tracce. Risale al 1239 l'avvio del cantiere per la costruzione dell'attuale Castello, sotto la direzione dell'architetto militare Riccardo da Lentini, per volontà di Federico II di Svevia. Nel 1255 è attestata per la prima volta la denominazione di 'castrum Ursinum', divenuta poi usuale. Tra il 1296 e il 1336 il Castello è a più riprese residenza di Federico III; anche negli anni successivi, durante i brevi regni di Pietro II, di Ludovico e quindi sotto Federico IV, mantiene il ruolo di residenza reale e sede di importanti eventi politici. Nel 1392, dopo lo sbarco dei Martini, Catania si rivolta contro gli Aragonesi; il presidio regio si chiude nel castello.
Negli anni tra la fine del '300 ed i primi del '400 il Castello è spesso residenza ufficiale dei sovrani e della corte. Nel XV ( primo venticinquennio) il Castello mantiene il suo ruolo di reggia; verso la seconda metà del secolo è a più riprese sede di sessioni parlamentari e residenza viceregia. Nel 1669 una disastrosa eruzione dell'Etna modifica sostanzialmente la topografia del luogo, dove sorge il Castello che rischia di essere seppellito. Nel 1693 il Castello subisce alcuni danni a seguito dei terremoti di gennaio. Nel 1837 vengono realizzati alcuni lavori al fine di riutilizzare militarmente il Castello, già adibito a prigione. Dal 1931 al 1934 vengono realizzati restauri e trasformazione del Castello in museo.
Il nome "castrum Ursinum" potrebbe essere collegato al "vir consularis Flavius Arsinius", che governò la Sicilia prima del 359 d.C e promosse il restauro del ninfeo di Catania; il ricordo di lui potrebbe essersi conservato nella denominazione dell'area su cui poi sorse il Castello, passando quindi a quest'ultimo.

Castello Svevo di Catania


Il Castello Svevo di Catania è un grande complesso edilizio ad ali con corte centrale. Ogni lato misura circa 50 metri, ed ai quattro angoli vi sono torri circolari di poco superiori ai 10 metri. Delle torri semicilindriche mediane solo due si sono conservate, ma è certa anche l'esistenza delle altre due mancanti. Le mura, realizzate in pietra lavica, presentano spessore di metri 2,50.
L'aspetto esterno del Castello è caratterizzato da numerose aperture in buona parte posteriori al progetto originario. All'interno, originariamente, l'edificio svevo presentava al pianterreno quattro ali edilizie con ambienti a pianta rettangolare coperti ognuno da tre volte a crociera; quattro stanze quadrate, anch'esse coperte da crociere, raccordavano tra loro i saloni. L'aspetto originario si è mantenuto nell'ala settentrionale che conserva integro il trionfo delle cinque crociere. Secondo un recente contributo il progetto originario prevedeva un piano superiore solo sull'aria settentrionale, diversamente da quello che sosteneva Giuseppe Agnello, secondo il quale il piano superiore era stato previsto nel disegno federiciano, realizzato e poi trasformato tra il XV e il XVI secolo.
Il Castello è sede del Museo Civico dal 20 ottobre 1934. Esso ospita le raccolte civiche in cui sono presenti le sezioni archeologiche Medievale, Rinascimentale e Moderna. Vi si conservano 8043 pezzi tra reperti archeologici, epigrafi, monete, sculture, pitture, sarcofaghi fittili greci, romani, mosaici. Sono presenti infatti vari reperti archeologici provenienti dalle città e dai territori di Catania, Paternò, Centuripe, Lentini, Roma, Trapani, Caltagirone (ceramiche), Ercolano, Camarina. Inoltre si conserva la statua fittile di Kore trovata ad Inessa-Civita in territorio di Paternò. Nel museo è custodita l'iscrizione latina trovata nella fonte dell'antico acquedotto greco-romano presso il monastero benedettino di Santa Maria di Licodia già in territorio di Paternò.
Il Castello ospita anche, nelle splendide sale situate al piano terra, un prezioso patrimonio composto da donazioni di illustri catanesi, opere provenienti da chiese e conventi soppressi, dal Museo dei Benedettini e dalla collezione del principe di Biscari. Il nucleo principe della raccolta di questo illustre catanese è costituito da materiale archeologico proveniente dagli scavi eseguiti a Catania, nonchè da acquisti fatti a Napoli, Roma, Firenze. Tra i pezzi più pregevoli della collezione alcuni splendidi vasi attici, terrecotte arcaiche ed un cospicuo gruppo di bronzi.
Il Castello inoltre ospita spesso mostre itineranti di rilevanza nazionale ed internazionale.

adranon

La cinta muraria 


Nata per volere di Dionigi I nel 400 a.C. circa, in posizione strategica sulla valle del Simeto di fronte al picco su cui sorge Centuripe, Adrano mantenne questo carattere di centro fortificato per lungo tempo. Le indagini archeologiche mostrano che fu una città fiorente, per quanto siano poche le notizie delle fonti storiche sulle sue vicende.

Già nel 1781 il principe di Biscari, nel suo elenco dei resti di Adranon greca allora visibili, citava tratti della cinta muraria in contrada Difesa e presso la chiesa di S. Francesco: "Magnifica è la costruzione di essi, essendo internamente formati di grosse pietre di lava, ben riquadrate e connesse senza calce". Il pittore Jean Houel raffigurava, in uno dei suoi celebri acquerelli, un tratto fortificato della cinta, ma solo agli inizi del XX secolo Paolo Orsi intraprese la prima campagna di scavo del tratto fortificato di contrada Difesa, lungo circa quattrocento metri.


Antica veduta del tratto della cinta muraria di contrada Difesa
(J. Houel, fine XVIII secolo)


In quei lavori furono sgomberate, dove possibile, le sovrapposizioni moderne e si effettuarono i primi rilievi. Le mura, corredate da torri quadrangolari e postierle, erano realizzate secondo sistemi di costruzione tipici delle fortificazioni greche: a doppio paramento di conci lavici con un riempimento interno che Orsi definì una colmata interna di pezzame amorfo, buttato quasi alla rinfusa. Vennero individuate due postierle e isolato il grande torrione addossato alla chiesa di S. Francesco, abbattendo due casotti che ne mascheravano i fianchi.


La città di Adranon in rapporto al centro moderno

Le case


Pochi sono gli elementi abitativi emersi dagli scavi, che pure testimoniano la presenza di case simili a quelle rinvenute in altri centri greci della Sicilia. Il sovrapporsi della città moderna sull’antica, infatti, offre un quadro della situazione solo in parte leggibile. Allo stato attuale delle conoscenze, non ci sono ritrovamenti sicuramente riferibili alla prima metà del IV secolo a.C.


Abitato di Adranon.Resti di una casa del III secolo a.C.

I resti più antichi dell’abitato sono stati infatti datati, sulla base della ceramica ritrovata, alla seconda metà di quel secolo, forse perché solo allora il centro cominciò ad acquisire la fisionomia di città. Le case rinvenute si datano per lo più tra la seconda metà del IV e il III sec. a.C., periodo di maggiore fioritura del centro greco.



Abitato di Adranon.
Resti di una casa del III secolo a.C.
(particolare del sistema di canalette di scarico)

Le campagne condotte negli ultimi decenni hanno dimostrato che la città presentava l’impianto urbano ortogonale tipico delle città greche.


I resti dell'abitato di Adranon all'interno del centro moderno.
In colore grigio il percorso della strada antica scoperta nel 1981.

Le necropoli


Le necropoli di Adranon si estendevano ad occidente e ad oriente della città. Purtroppo, l’abusivismo edilizio ha sottratto allo studio intere porzioni delle antiche aree sepolcrali e l’attività degli scavatori clandestini ha provocato la dispersione di moltissimi oggetti nei mercati internazionali.
Anche per le necropoli vale quanto detto a proposito dell’abitato: esse infatti non risalgono ai primi anni di vita della città, ma a fasi più tarde.

Della necropoli occidentale (contrada Sant’Alfio) sono state riportate alla luce diverse tombe, databili sulla base dei corredi funebri fra la fine del IV e il III sec. a.C. Accanto a sepolture “a fossa”, si sono ritrovate numerose deposizioni “a cappuccina”. Tra i corredi funebri ricordiamo quello preveniente dalla tomba di una donna, che presentava, fra i vasi per la toletta, una piccola pisside contenente un ago da cucito in bronzo.

La necropoli orientale, sebbene sia stata già oggetto di ricerche da parte di appassionati di antichità ottocenteschi, è al momento meno conosciuta. Di recente si sono aggiunti nuovi dati grazie allo scavo di una serie di tombe situate a poche centinaia di metri a sud del Municipio, databili fra la fine del IV al II sec.a.C. Anche qui le sepolture erano “a cappuccina” e a fossa. Fra gli oggetti recuperati vanno ricordati un vasetto a forma di ariete, probabilmente contenitore di unguenti profumati, e alcuni vasi a figure rosse di produzione siceliota.
 

Riserva Naturale orientata Monte Capodarso e Valle dell'Imera



Monte CapodarsoNel cuore della Sicilia, a cavallo tra le province di Enna e Caltanissetta e lungo il corso del fiume Imera meridionale, si estende uno dei maggiori polmoni verdi dell'isola, la Riserva Naturale Orientata di Monte Capodarso e Valle dell'Imera meridionale. Istituita nel 1999 e affidata in gestione all'Associazione Italia Nostra la riserva ricade nel territorio dei comuni di Pietraperzia, Caltanissetta ed Enna, tra le falde del Monte Capodarso e del Monte Sabucina, coprendo un territorio di ben 1.485,1 ettari. In un contesto archeologico e naturalistico di rara bellezza si fondono vari ecosistemi, miniere di zolfo, zone archeologiche e masserie. La prima cosa che colpisce chi arriva nella valle è lo stupendo paesaggio che ha come protagonista il fiume Imera che in alcuni tratti, è incassato tra pareti calcaree mentre in altri è circondato da colline che degradano dolcemente. Nel fiume confluiscono le acque di numerosi affluenti, fra i quali i fiumi Morello e Torcicoda. L'acqua, a volte, abbandona il suo letto creando dei meandri simili a stagni, dove nidificano molte specie animali. Qui è presente la tipica vegetazione degli ambienti rupestri con essenze tipiche della macchia mediterranea e quella degli habitat acquatici. Ad ovest del fiume si estende il territorio della provincia di Caltanissetta, mentre a est quello della provincia di Enna. Già negli anni '70 si profilò la necessità di proteggere il corso centrale del fiume dalle speculazioni, dalle cave e dalle cementificazioni di ogni sorta ma nonostante tutto la vallata venne ugualmente deturpata dalla realizzazione dello scorrimento veloce Caltanissetta-Gela. I magnifici ambienti naturali sono caratterizzati da ampie gorene con meandri e pozze d'acqua fluviale salata, mentre l'altura di Capodarso, di roccia calcarenitica di colore ambrato, ospita cavità carsiche inesplorate delle quali è uno splendido esemplare la 'Grotta delle meraviglie'.
Flora e Fauna - L'ambiente naturale e agricolo della valle presenta differenti ecosistemi che vanno dai boschi di pino ed eucalipto alle pareti rocciose coperte dai radi cespugli della macchia mediterranea, dall'alveo del fiume alle coltivazioni di pistacchi, olivi e mandorli. A secondo degli ambienti la flora cambia e si adatta. Vi sono ampie estensioni a vegetazione steppica ricche di euforbie, tagliamani (in dialetto 'disa'), finocchio selvatico, assenzio, ferula e zone a macchia dove trovano il loro habitat ideale il leccio, l'oleastro, il lentisco, il terebinto. Nel periodo invernale fiorisce la barlia, lo spazzaforno, il giaggiolo, la bellavedova e il colchico mentre in primavera il paesaggio è un susseguirsi di colori con fiori di vario genere tra cui spiccano le orchidee spontanee.
Nelle zone disseccate del greto del fiume nidificano l'occhione e il corriere piccolo. I canneti, invece, ospitano la cannaiola, il cannareccione e il tarabusini e le rondini. Il fiume è il territorio di caccia del martin pescatore mentre sui monti Sabucina e Capodarso nidificano il culbianco e la monachella. Gli anfratti rocciosi e i vecchi casolari diroccati sono frequentati dal raro piviere tortolino, dal barbagianni, dall'allocco, dall'assiolo e dalla civetta. Presente nella zona la rarissima aquila del Bonelli insieme alla poiana, al gheppio, al nibbio reale, al lanario, al pellegrino e al grillaio. Nella zona sono presenti circa 150 specie di uccelli di cui almeno 60 nidificanti. L'Imera meridionale è un luogo di migrazione tanto che in primavera ed autunno è percorso da varie specie di uccelli migratori come gli aironi, le garzette, i falchi di palude, i limicoli, le gru, le albanelle, i falchi pecchiaioli e svariati passeriformi. Tra i mammiferi ricordiamo il raro gatto selvatico che si rifugia nelle aree boschive, l'istrice, il riccio, la donnola, il coniglio selvatico e la volpe. Nelle acque salate del fiume vive anche la testuggine palustre i cui esemplari, purtroppo, sono in forte diminuzione a causa dell'inquinamento e della presenza umana. Un rettile presente nella zona, anche se raro, è il colubro di Esculapio o saettone, un serpente innocuo che può raggiungere anche i due metri di lunghezza.
Mulino abbandonato Capodarso
Archeologia industriale – La riserva è abbastanza antropizzata e ospita numerose masserie, ricoveri temporanei e pagliai. Molte delle masserie hanno una tipologia a baglio o cortile aperto con gli ambienti a piano terra destinati a stalle e magazzini mentre i piani superiori ad abitazione. La Valle dell'Imera ospita inoltre, alcuni tra i maggiori siti della civiltà mineraria siciliana. Nelle due cime di Monte Capodarso ad est e Monte Sabucina a ovest si sono accumulati, nel corso dei millenni, i depositi dell'altipiano gessoso solfifero sino a favorire la formazione di miniere di zolfo su ambedue le rive. Tra le più note ricordiamo quelle di Trabonella, Giumentaro e Giumentarello che oggi rappresentano un prezioso esempio di archeologia industriale. Procedendo lungo la SS.122, dopo aver percorso una stradella che sottopassa ponte Capodarso, edificato nel 1553 sotto Carlo V da due 'mastri' veneziani, si arriva alla miniera Giumentaro, la più recente e meglio conservata della provincia dove è ancora visibile un pozzo di estrazione con il castelletto in ferro.
Area Archeologica di Monte Sabucina - Si inseriscono nel magnifico paesaggio di Monte Sabucina i resti di un villaggio sicano ellenizzato del XII secolo ove sono state rinvenute una necropoli con tombe a grotticella della prima età del bronzo ed una misteriosissima e scenografica scala che scende per alcuni gradini per poi proiettarsi nel vuoto della rocca. Nessuno ha ancora capito la sua funzione. Alcuni archeologi colgono un valore simbolico ritenendo che si tratti di un tragitto verso mondi sovrannaturali o un luogo di supplizi, altri pensano ad una via di fuga un tempo dotata di corde e scale a pioli.
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VILLA DEL TELLARO


L’antica Villa romana del Tellaro si erge in contrada Caddeddi o Vaddeddi del comune di Noto, in provincia di Siracusa, sulla sponda destra del fiume Tellaro (1). Si tratta di una villa romana tardo-imperiale, esistente al di sotto di una masseria sette-ottocentesca in completo stato di abbandono. La scoperta del sito fu fortuita, a seguito di scavi clandestini operati nel territorio netino, ricco di emergenze archeologiche. Gli scavi archeologici ufficiali iniziarono negli anni ’70 ad opera dell’allora Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Orientale e portarono alla luce dei meravigliosi pavimenti musivi, quasi completamente distrutti dalle fondazioni della masseria che danneggiarono gravemente la villa romana sottostante.
Noto, Villa del Tellaro
Noto, Villa del Tellaro
La Villa è datata al IV secolo d. C. sulla base di considerazioni di carattere stilistico e dei dati di scavo. La sua scoperta è stata fondamentale non solo per gli studi concernenti il mosaico tardo-antico in Sicilia e nel Mediterraneo, ma anche per la conoscenza del fenomeno sociale, economico e politico che determinò la nascita e lo sviluppo di queste grandi ville nel territorio siciliano.
La Villa del Tellaro e quella più famosa di Piazza Armerina, rappresentano, nell’ideologia romana del III e IV secolo d. C., epicentri di vasti territori privilegiati, organismi che, nella gestione di vaste aree produttive, furono autosufficienti rispetto ai centri urbani, per cui la loro realizzazione è di grande impegno costruttivo, con comuni criteri nell’organizzazione architettonica e con la presenza di grandi opere decorative. Questi vasti complessi rurali rispondono alle esigenze di eminenti famiglie aristocratiche siciliane e romane in connessione al nuovo assetto territoriale della Sicilia nel IV secolo d. C., in cui si assiste alla costante e progressiva scomparsa della piccola e media proprietà per l’affermazione del latifondo, in un periodo storico in cui, a seguito della riforma dioclezianea (2), il rapporto tra Sicilia e Roma si era intensificato dal punto di vista amministrativo e politico.
Un rovinoso incendio, datato alla seconda metà del V secolo d. C., distrusse completamente la Villa, gettandola all’abbandono e all’oblio per secoli, fino a quando, tra ‘700 ed ‘800, una masseria fu costruita sul sito dell’antica villa romana.
La sezione della Villa romana messa in luce è formata da un grande peristilio di circa m. 20 di lato, circondato da un portico colonnato con corsie di diversa larghezza e posti su differenti piani. Come tutte le ville romane tardo-imperiali, anche questa si sviluppava su più piani: il piano terra, a cui si accedeva da un ingresso posto sulla sponda destra del fiume Tellaro, allora navigabile e grande via di comunicazione, è composto da ambienti di servizio, privi di pavimenti musivi; al piano superiore si trovano una serie di ambienti abitativi, di forma quadrilatera, dotati di pavimenti a mosaico di grande bellezza.
Mosaico del lato nord del portico
Il mosaico pavimentale sul lato nord del portico assume le sembianze di un magnifico tappeto policromo che, in antico, si distendeva unitariamente su tutto il portico. Il mosaico è costituito dalla successione, sia in senso orizzontale che verticale, di un motivo continuo di ricchi festoni di alloro che formano, ad intervalli regolari, medaglioni circolari al cui interno continuano ad intrecciarsi circolarmente, formando medaglioni più piccoli.
Noto, Villa del Tellaro
Il campo dei medaglioni più piccoli è decorato da un motivo bianco a forma di croce inserito in una corona con bordo a zig-zag; quelli più grandi mostrano, su un fondo bianco, motivi decorativi più complessi formati da spirali e fiori di loto, sia chiusi che aperti. Gli spazi realizzati dall’intreccio curvilineo dei festoni di alloro delimitano, simmetricamente, degli ottagoni dai lati concavi contrassegnati da listelli bianchi e con i campi interni decorati da motivi geometrici. In questo mosaico la grande padronanza del disegno, la vasta ricchezza cromatica e l’uso sapiente dei passaggi tonali del colore delle tessere rimandano ad ambiente africano.
Mosaico col riscatto del corpo di Ettore
Sul lato nord del portico è collocato il primo ambiente, parzialmente recuperato, sul cui pavimento, quasi distrutto, è raffigurata nell’emblema al centro del mosaico la scena del riscatto del corpo di Ettore. Dall’iscrizione greca sul margine superiore dell’emblema, veniamo a conoscenza che alla scena partecipano, da una parte Ulisse, Achille e Diomede, dall’altra i Troiani, dei quali è superstite solo parzialmente uno di essi; manca la figura di Priamo la cui presenza è documentata dall’iscrizione.
Noto, Villa del Tellaro
Noto, Villa del Tellaro
Al centro della scena padroneggia la bilancia con i due bracci sui cui piatti si trovano, da un lato, gli ori del riscatto, dall’altro, il corpo senza vita di Ettore andato perduto a seguito dell’incendio del V secolo d. C..
La rappresentazione mitica è incorniciata da una fascia formata da vigorosi festoni di alloro arricchiti da frutti e fiori con grandi maschere agli angoli su fondo bianco; la fascia di alloro avvolge corpi di fiere dei quali sul lato sud, solo quello di una tigre si è conservato per intero, nell’atto di correre, a ovest invece i girali avvolgono il corpo di un leopardo la cui testa è andata distrutta.
Mosaico “dei Crateri”
Noto, Villa del Tellaro
Noto, Villa del Tellaro
L’ambiente attiguo al precedente presenta un pavimento musivo gravemente danneggiato. La scena ivi rappresentata è completamente contornata da una fascia a onda e a fiori di loto. Nei quattro angoli del mosaico si trovano quattro crateri con la bocca piena di frutti, foglie e tralci, sulla quale dipartono quattro festoni, i cui corpi si dirigono verso il centro del mosaico delimitando un riquadro centrale quadrato a lati concavi e, al di sotto, quattro riquadri rettangolari. Essi sono incorniciati da una fascia ondulata sovrastata da una conchiglia. I quattro riquadri sono decorati con scene figurate, ripetute simmetricamente, in cui campeggiano un satiro e una menade in vari atteggiamenti presso un altare. Sono sovrapposte ai festoni quattro maschere.
Mosaico con scene di caccia
Il terzo ed ultimo ambiente con pavimento musivo messo in luce e recuperato è di vaste proporzioni e presenta la raffigurazione di una scena di caccia molto articolata, che si svolge su quattro registri contornati da una fascia decorata a meandro alternati a riquadri con volatili, pesci e decorazione vegetale. Le ripartizioni fra le varie scene di caccia sono contraddistinte da rocce, cespugli, alberi, acque, elementi che costituiscono lo scenario in cui si svolge l’azione. Nel primo registro della parte alta del mosaico vi sono parziali corpi di fiere indirizzate verso una gabbia il cui portello è tenuto aperto da un cacciatore.
Noto, Villa del Tellaro
Noto, Villa del Tellaro
Il secondo registro è dominato, al centro, dalla scena di un cacciatore che vibra un colpo di lancia contro un leone rappresentato nell’atto di sbranare una gazzella. Ai due lati della scena vi sono dei cacciatori, a sinistra in azione, a destra stanti, armati di lancia e scudo. Il terzo registro occupa tutta la parte centrale del mosaico con le scene di maggiore rilievo, dominate dalla figura maestosa di una splendida donna seduta su un trono di rocce e circondata da una cornice di fronde erbose.
La figura che troneggia al centro della scena è la personificazione dell’Africa, che rivolge lo sguardo verso la drammatica scena di un cacciatore, disarcionato a terra, che soccombe all’assalto violento di una tigre che azzanna il suo scudo, mentre un cavaliere cerca di colpire la fiera con l’aiuto di un altro cacciatore, rappresentato nell’atto di scagliare contro la belva un enorme masso.
A destra della figura femminile seduta è rappresentata una scena più tranquilla riguardante il passaggio, in uno stagno, di un carro trainato da buoi e accompagnato da uno stuolo di cavalieri, di servi e di cani. Il carro trasporta una gabbia con le fiere catturate, seguito da tre personaggi bardati, interpretabili come ufficiali preposti alla caccia.
Il quarto registro, più vicino all’ingresso della sala, rappresenta la scena di un banchetto all’aperto; il centro della scena è occupato da sei commensali riuniti intorno allo stibadium sotto una tenda tesa tra i rami di alberi. La scena è affiancata, da una parte, dalla raffigurazione di servi affaccendati nella preparazione delle pietanze e nel servirle, dall’altra parte, da sei cavalli inquieti nell’atto di riposo dopo le fatiche della caccia. Le tre scene sono correlate dalle figure di due servi intenti a versare da bere ai due commensali seduti alle estremità opposte dello stibadium.
Questo mosaico può essere confrontato non solo con quello della “Grande caccia” della Villa di Piazza Armerina ma anche con alcuni mosaici dei grandi centri dell’Africa Proconsolare, in cui è possibile individuare degli elementi in comune. Assolutamente originale in questo mosaico della Villa del Tellaro è l’organizzazione e distribuzione delle scene che si svolgono tutte intorno alla maestosa figura femminile seduta in trono al centro della rappresentazione.