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domenica 24 febbraio 2013

La leggenda del gigante Tifeo

Tifeo, nella mitologia greca, era un mostro nemico di Zeus. Figlio di Gaia aveva tre teste di cui una sola era umana, una coda e delle ali. Quello che si dice un brutto soggetto!Venne gettato dentro l'Etna e da qui continua ad emettere cenere e fumi.
Per certi aspetti Tifeo è il simbolo della ribellione. Già, un cattivo che per vendetta si scaglia contro il potente di quegli anni, Zeus appunto.
Come spesso accade ai ribelli il nostro amico gigante viene sconfitto, ma non muore. Infatti il suo respiro diventa vulcano.
Narra la leggenda che la Sicilia è sorretta da un gigante: questo gigante si chiama Tifeo, che osò impadronirsi della sede del cielo e per questo venne condannato a questo supplizio. Sopra la sua mano destra sta Peloro (Messina), sopra la sinistra Pachino, Lilibeo (Trapani) gli comprime le gambe, e sopra la testa grava l'Etna.
Dal fondo supino, Tifeo inferocito proietta sabbia e vomita fiamme dalla bocca. Spesso si sforza di smuovere il peso e di scrollarsi di dosso le città e le grandi montagne: allora la terra trema.

Il "Mothman" l'Uomo Falena

Miti millenari o leggende antiche sembrano attingere forza dalle nostre paure ed assumere un vigore ed una potenza tali da trasformarle in eventi reali, privi di ogni connotazione fantastica. Tra i casi più estremi ed affascinanti che si possano ricordare negli ultimi decenni troviamo sicuramente quelli legati alla misteriosa creatura alata oramai conosciuta come Mothman, l’uomo falena.
Tutto iniziò il 12 novembre del 1966 nel West Virginia, il primo avvistamento risale al '66 anche se recenti indagini sembrerebbero far presumere che un "fenomeno uomo-falena" possa esistere da molto più tempo di quanto ritenuto. Gli eventi occorsi nel West Virginia non sono collocabili all’interno di quelle isterie di massa che magari furono tanto popolari nel medioevo, come anche non possiamo chiamare in causa abbagli di varia natura per gente che era abituata a vivere con la natura e a coltivarne i suoi frutti e ad allevare le sue creature. Ciò che accadde a Point Pleasant non fu neanche un unicum topologico e storico, molti altri avvistamenti si sarebbero susseguiti nel corso del tempo e quasi nessuno avrebbero trovato risposte certe come molti invece hanno fatto credere. Ciò che queste persone videro e sperimentarono trascese totalmente l’intelletto umano posizionandosi all’interno di quel nuovo campo della psicologia che viene oggi conosciuta come Psicologia dell’Insolito e degli Eventi Straordinari come anche all’interno di quella vasta casistica IR-IV su incontri tra individui ed esseri di possibile origine extraterrestre. Si perché il Mothman è ormai acclaratamente parte della letteratura ufologica mondiale. La sua presenza è stata in molte occasioni associata a quei velivoli che siamo stati abituati a chiamare UFO e la sua presenza ha sempre accompagnato flap localizzati di avvistamenti. Tali eventi sono a pieno titolo fatti straordinari rimasti a distanza di decenni senza nessuna spiegazione logica, e vorremmo aggiungere anche zoologica . Ritornando alla nostra indagine si rese ben evidente come la maggior parte degli avvistamenti della strana creatura fosse avvenuta nelle vicinanze del deposito di esplosivi abbandonato oggetto del secondo avvistamento del 15 novembre. Quale luogo migliore per nascondersi che una struttura della seconda guerra mondiale ormai disabitata? La presenza di una serie di gallerie ad alveare sotterranee, che dipartivano dal deposito e si districavano per diversi chilometri nella zona permetteva a questo strano essere di muoversi indisturbato senza la minima possibilità di essere visto. In aggiunta al deposito di esplosivi, reso invalicabile per motivi di sicurezza, si aggiungeva nella zona il McClintic Wildlife Station una grande riserva naturale demaniale inaccessibile per la sua fauna e flora protetta.
Nel lontano '66 il primo avvistamento lo fecero 5 uomini, che si trovavano all'interno di un cimitero (nel Clendenin, in Virginia), per scavare la fossa di un cittadino scomparso da poco, i 5 uomini alternavano il lavoro a momenti di relax, fino a quando videro volare sulla propria testa una strana figura che dopo venne descritto come: UOMO MARRONE CON LE ALI. Niente di simile era stato avvistato fino a quel momento, i lavoratori rimasero scioccati ma non furono gli unici ad assistere a questo strano fenomeno. Tre giorni dopo si verificò un nuovo caso di
avvistamento uomo falena, era il 15 novembre quando un coppia si trovava a percorrere una strada che portava al piccolo paesino di Point Pleasant, nel West Virginia. Improvvisamente avvistarono la strana creatura, quella notte altri individui sarebbero stati testimoni di altri agguati. Un gruppo composto da quattro persone era stato testimone di non meno di quattro avvistamenti dello strano uccello gigante. Nella stessa sera verso le 22.30 Newell Partridge, costruttore edile,mentre guardava la televisione, venne infastidito da una continua assenza di segnale accompagnata da un oscuramento totale con televisione accesa, l'uomo si avvicinò al televisore udendo uno strano suono che proveniva dall'esterno della sua abitazione, il cane di Partridge ululava costringendo l'uomo a munirsi di torcia e recarsi fuori casa. L'uomo puntò la torcia nel punto dove il cane ululava e vide lo strano soggetto. Nelle successive interviste Partridge esperto cacciatore raccontò che la sua non era allucinazione, ma ciò che vide esisteva realmente.

L'avvistamento più sensazionale, venne effettuato da due piloti di un aereo sopra l'aeroporto di Gallipolis Ohio, che avevano scambiato lo strano essere per un piccolo aereo, mentre si trovavano ad una velocità di 110 Km/h, l'essere in questione, sopportava quella velocità senza battere ali! Pochi uccelli sono in grado di andare a quella velocità e per giunta in volo orizzontale e non in picchiata. In più di qualche caso, l'essere si avvicinò tanto ai testimoni, da poterli sfiorare e attaccare. In linea di massima, si poté fare una descrizione dell'essere:
1)Altezza: alto da 1,30 a 2,0 M. 2) Larghezza: largo in alto, lievemente affusolato, più largo di un Uomo. 3) Rivestimento: i testimoni non sono riusciti a precisare se è vestito o ricoperto di pelle grigia sebbene alcuni testimoni, ebbero l'impressione che fosse bruno. 4) Testa: visto da dietro sembra non avere testa, pochi testimoni riferirono di aver visto una faccia. 5) Occhi: dotati di luminosità propria, rosso-vivi, del diametro approssimativo di 5-8 Cm distanti tra loro. Gli occhi si trovano vicino alle spalle. 6) Gambe: di tipo umano, l'essere cammina eretto come un uomo, e non curvo come un orso, muove le gambe come se trascinasse i piedi. 7) Braccia: i testimoni riferirono che l'essere non aveva braccia. 8) Ali: ripiegate contro il dorso quando non vengono usate; l'apertura d'ali, su questo tutti i testimoni sono d'accordo, è di circa 3 metri simili a quelle di un pipistrello, non battono in volo. 9) Suoni: suoni, squittii come un topo, un testimone disse che emetteva un suono simile "al cigolio della cinghia di una ventola". Due testimoni dichiararono di aver udito un ronzio metallico mentre l'essere li sorvolava. 10)Velocità: avrebbe retto l'andatura di automobili che andavano a 120-160 Km/h, senza battere ali.

sabato 23 febbraio 2013

la fata Morgana

Secondo il mito, Morgana è figlia di Igraine e di Urien, e sorellastra di Artù. La prima opera letteraria nella quale appare la figura di Morgana è la "Vita Merlini" di Goffredo di Monmouth, 1148, nella quale Morgen è una fata guaritrice, che cura Re Artù, e che vive ad Avalon con nove sacerdotesse...
Un breve accenno alla figura di Morgana era già presente nell'Historia Britannicum, nella quale si narrava che Artù era stato curato ad Avalon.
Attorno al 1170 Morgana riappare in "Erec et Enide", in questo testo è sorella di Artù e fata guaritrice.
Benoit de Saint Marure la cita nel "Roman de Troie", 1160 e in "La Vulgata Lancelot" si dice di lei: "Verità fu che Morgana, la sorella di re Artù, era molto esperta di incantesimi e di sortilegi e più di tutte le donne; e per il grande impegno che ci mise lasciò e abbandonò la comunità della gente e soggiornava giorno e notte in foreste profonde e presso le fonti, cosicchè molte persone, che erano molte nel paese, non dicevano che era una donna, ma la chiamavano Morgana la dea".
Con il passare del tempo la figura di Morgana andrà sempre più assumendo tratti negativi e da guaritrice diventerà traditrice e maga, caratteristica che le rimarrà addosso in tutta la letteratura cortese del XIII secolo.
La peculiarità della figura della fata nei romanzi del XII secolo era di abitare in un altro luogo e di poter curare il re ferito, mentre nel XIII secolo la caratteristica è quella di rapire gli uomini e farne suoi amanti.

la leggenda di Mata e Grifone

La leggenda di Mata e Grifone


Mata e Grifone sono due statue gigantesche che, nei secoli sono state accostate a varie figure mitologiche: Crono e Rea (ovvero, nella tradizione latina, Saturno e Cibele), Cam e Rea, Zanclo e Rea, infine Mata e Grifone.
Le versioni del mito di Mata e Grifone sono diverse, alcune narrano che il gigantesco guerriero e la regina bianca rappresentino i veri fondatori di Messina, mentre altre ritengono che siano i prigionieri musulmani fatti dal condottiero Ruggero D'Altavilla nel 1086.
La costruzione di queste statue è attribuita al fiorentino Martino Montanini, allievo del Montorsoli su incarico del Senato di Messina intorno al 1550.
Mata, su un destriero bianco (un tempo scuro), simboleggia l'elemento indigeno; la tradizione la vuole nativa di Camaro, antico quartiere cittadino sull'omonimo torrente.
La testa è un rifacimento dell'originale andato distrutto prima a seguito del terremoto del 1783, successivamente nel terremoto del 1908 infine dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.
L'attuale statua è stata eseguita dallo scultore Mariano Grasso nel 1958. Presenta sul capo una corona con tre torri (forse le torri dell'antico castello di Matagrifone), oltre che ramoscelli e fiori; dalle orecchie le pendono orecchini d'oro. Indossa una corazza di colore azzurro con ricami in oro sopra una veste bianca che le copre le ginocchia; porta ai piedi calzari con stringhe intrecciate. Sulle spalle un mantello di velluto blu.
Zanclo (Grifone), che cavalca uno stallone nero (un tempo bianco), ha una bellissima testa di moro, incoronata con foglie di lauro e ornata da orecchini a mezzaluna. Indossa una corazza sopra una corta tunica bianca bordata in oro. Nella mano destra impugna una mazza di metallo, con la sinistra tiene le redini e al braccio ha uno scudo ovale al cui interno vi sono raffigurate tre torri nere su sfondo verde.
Porta al fianco una bella spada la cui elsa è ornata da una testa di leone e da due teste di uccelli rapaci. Sulle sue spalle, un mantello di velluto rosso.

La più accreditata delle leggende si riferisce al 964, quando Messina era l’ultimo baluardo siciliano che resisteva all'occupazione araba. Un generale invasore di nome Hassas Ibn-Hammar, durante l’assedio alla città, vide la bella Mata figlia di un commerciante messinese.
Innamoratosene costrinse con la forza il padre a dargliela in sposa. Le mille attenzioni del saraceno non furono sufficienti a far innamorare la candida fanciulla, solo la sua conversione al cristianesimo riuscirono ad intenerirne il cuore.
Il nome di Hassan diventò Grifo ribattezzato Grifone per la sua mole. I due innamorati prosperarono e vissero... felici e contenti.

Nella realtà invece, la loro nascita è da collocarsi intorno alla fine del XVI sec., in un momento in cui si era di nuovo inasprita la rivalità tra Messina e Palermo, su quale delle due dovesse ricoprire il ruolo di capitale.
Nel 1591 Filippo II ordinò che il Vicere risiedesse a Messina per 18 mesi ogni triennio. In questi anni le due città facevano a gara nell'esibire titoli e privilegi che potessero far prevalere l'una su l'altra.
Nel 1547 in contrada Maredolce, a Palermo furono rinvenute delle ossa gigantesche, probabili resti dell'antica fauna che aveva popolato l'Isola in epoca preistorica (elefanti nani e ippopotami).
Questo ritrovamento fece asserire ai Palermitani che la loro città era stata fondata da "Giganti", quindi in epoca assai remota, e ciò le arrecava un maggior prestigio rispetto alla città dello Stretto.
Forse fu per reazione a queste pretese che il Senato di Messina ordinò la costruzione delle due statue.

castelli siciliani




Castelli Siciliani

I manieri della paura, storia di miti e di baroni

Il siciliano ha sviluppato nei confronti di mura, torri e merli una diffidenza-indifferenza che deriva probabilmente da un timore atavico derivante anche dall´uso carcerario di molti castelli, e il fatto che fossero luogo di esecuzioni capitali. Il castello ha rappresentato il luogo dell´oppressione, il simbolo del potere baronale e del possesso della terra che impone il lavoro bestiale e lo ripaga con pura sopravvivenza Non è un caso se spesso sono stati presi di mira durante insurrezioni popolari, dalle rivolte dei Vespri nel 1282, come accadde a quello di Vicari, fino all´insurrezione contro la leva obbligatoria durante il governo Badoglio, a Naro, dove il maniero, sede delle carceri, fu assalito.
Ma adesso i siciliani possono ammirare senza timore l´imponenza quasi sovrannaturale dei castelli dell´entroterra, come quello di Sperlinga, incastonato nella roccia, denso di mistero sulle sue origini che risalgono almeno al 1081. Scavata nei monti Nebrodi dell´Ennese la fortezza è rimasta nella storia per aver salvato gli Angioini che lì si sono rifugiati durante la rivolta dei Vespri nel 1282.
Un grande costruttore di castelli in Sicilia è stato Federico II che quando arriva nell´Isola, nel 1220, dà il via alla realizzazione di decine di «dimore regie» con la funzione, anche simbolica, di controllare l´aristocrazia feudale che a sua volta intraprende in questi anni la costruzione di torri fortificate.
Ma sarà sotto il regno della debole casa d´Aragona, nel XIII secolo, che le grandi famiglie nobiliari prendono sempre più il controllo del territorio siciliano e costruiscono le loro fortezze: sono le famiglie Ventimiglia, Chiaramonte (rivali eterni tra loro), ma anche gli Alagona, i Peralta e i Palizzi.
Queste famiglie fin dal Trecento nei loro territori esercitavano il potere assoluto, dall´altezza dei loro manieri guardavano il lavoro faticoso nei campi di migliaia di contadini che attorno al castello costruivano le loro case e davano vita ad agglomerati diventati nel tempo comunità indipendenti. Dopo le famiglie dell´aristocrazia feudale è la volta dei baroni. Completamente abbandonati dopo il 1600 i manieri fortificati diventano alla fine del Settecento e nell´Ottocento simbolo di un altro potere oppressivo, trasformandosi in sedi delle carceri borboniche. Poi diventano il simbolo dei latifondisti che qui, imitando i nobili, mettono dimora.
Molti castelli sono giunti a noi quasi intatti, nonostante siano stati protagonisti spesso di sanguinose battaglie, come il maniero di Caccamo, il più grande della Sicilia e inespugnato, dove hanno trovato rifugio prima il ribelle Matteo Bonello, che nel 1160 guidò la rivolta dei baroni contro la Corona, e poi la famiglia Chiaramonte (che l´ha ampliato nel 1300) che qui resistette nel 1302 all´ennesimo assedio angioino. Tra i meglio conservati d´Italia, si erge sul monte San Calogero e domina la campagna dell´interno palermitano. Qui, secondo la leggenda, il fantasma di una suora triste continua ad aggirarsi nelle notti di luna piena con un melograno tra le mani. Se chi l´ha incontra riesce a mangiare il frutto senza farne cadere a terra nemmeno un chicco sarà ricco e felice, se non ce la farà sarà per sempre legato al fantasma. Il mito nasce da una storia popolare di una bella principessa che si innamora di un giovane soldato. Il re quando scopre i due innamorati fa immediatamente uccidere il soldato ma per ripicca la ragazza rifiuta di prendere un altro sposo e il padre la costringe a farsi suora. La giovane muore stroncata dal dolore, ma il suo fantasma continua a cercare pace fra le segrete mura.
Altro castello che nella sua immagine imponente simboleggia per sempre il potere dei baroni feudali è quello di Mussomeli, grandiosa opera architettonica che si fonda nella roccia con una tale armonia da sembrare essere opera della natura e non dell´uomo. Il castello si innalza solitario sulla campagna di Caltanissetta, anche questo fatto erigere da un componente della famiglia Chiaramonte, Manfredi III. Il suo nome vuol dire «città delle donne»: si narra che diversi fantasmi si aggirino per le sue stanze, a cominciare da quello di un soldato innamorato della figlia di Manfredi. Pazzo d´amore viene scoperto dallo stesso Manfredi che lo chiude in una torre per farlo morire di stenti: il soldato preferisce buttarsi giù. Altra leggenda narra della truculenta morte di un gruppo di nobili attirati con l´inganno nel castello.
Ma le storie di fantasmi e di amori tragici nei manieri di Sicilia si intrecciano. A quanto pare in quello di Mussomeli si aggira anche il fantasma della baronessa di Carini, altra costruzione medievale simbolo dell´Isola.

Tra le rocce fortificate di Mussomeli trova rifugio Cesare Lanza, in preda al rimorso per aver assassinato la figlia innamorata, la baronessa. La giovane, dicono, si aggira con vestiti del Cinquecento per quelle stanze. Un di queste si chiama delle «tre donne» e anche qui storia e leggenda si confondono: Manfredi vi avrebbe rinchiuso le sue tre sorelle durante la partenza per una delle tante guerre del tempo e al suo ritorno le trovò morte.
Sangue, amori passioni violente e, immancabile, il sacro.
Castello di Carini - “Carinis dominata da una fortezza di recente costruzione”: così Al-Idrisi (1099-1166 ), scrittore arabo di scienze naturali, mediocre poeta, ma soprattutto geografo, scriveva nel suo libro, rimasto famoso con il nome di “Kitab Rugiar” ( Il Libro di Ruggero ), terminato nel 1154, ossia nell’anno stesso in cui Ruggero II moriva. L’edificio viene eretto tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, su una costruzione precedente sicuramente araba, ad opera del primo feudatario normanno Rodolfo Bonello, guerriero al seguito del conte Ruggiero. Dagli scavi condotti nel corso del recente restauro, sia nel lato est che in quello nord, sono affiorate strutture murarie di epoche precedenti a quella normanna. Nel 1283, sotto il regno di Costanza D’Aragona, il Castello passa alla famiglia Abate che lo detiene per circa un secolo. Questa famiglia comincia a trasformare la struttura difensiva in ambienti quasi residenziali. Nel XIV secolo il feudo di Carini passa alla famiglia dei Chiaramonte. E’ nel 1397, che a Catania Re Martino il giovane, in cambio dei servigi resi, concede ad Ubertino La Grua di Palermo, Maestro Razionale del Regno, per se e per i suoi eredi successori la terra di Carini con tutti i suoi diritti e pertinenze. Due atti di notai attestano che nel Castello furono fatti restauri: uno, nel 1484, l’altro nel 1487, ad opera del maestro Masio de Jammanco, da Noto, cittadino di Palermo. Questi si obbligava col magnifico Guglielmo Talamanca, come tutore di D. Giovanni Vincenzo La Grua, barone di Carini di “dimorare a Carini per eseguire delle fabbriche nel Castello della stessa università ed altrove, per un anno continuo e completo, dal 2 ottobre in poi, per 11 onze, e mangiare e dormire per tutto il tempo”. Per raggiungere il Castello basta percorrere il Corso Umberto I e salire i gradini della Badia. Si hanno così, davanti, la porta e le possenti mura medievali dell’ XI e XII secolo che un tempo tracciavano l’antico borgo.

Cavalieri e religione si inseguono tra le mura dei castelli: in quello edificato dalla famiglia rivale dei Chiaramonte, i Ventimiglia, a Castelbuono è ancora oggi custodito il teschio di Sant´Anna, santuario venerato in tutte le Madonie. Nel castello di Pietraperzia si nascondono graffiti misteriosi recentemente rinvenuti. Sono disegni «magici» che ritraggono soggetti africani e orientali in scene di caccia, forche e patiboli.
CASTELLO DI CEFALA' Del Castello, del XIII sec., resta solo una robusta torre quadrangolare e ruderi delle mura di cinta.
Costituiva in origine un baluardo difensivo sull'asse di collegamento rappresentato dalla strada Palermo-Agrigento, per divenire nei secoli successivi deposito di granaglie e infine nel XVIII sec. residenza nobiliare

INNO SICILIANO






L'INNO DELLA SICILIA !!!!  =)

MISTRETTA-UNA CITTA' CON LE CASE DI PIETRA DORATE

Chi volesse ammirare una città con le sue case “di pietra dorata” - lavoro paziente di scalpellini oramai scomparsi - può lasciare la statale 113, che da Messina porta verso Palermo, ed affrontare i tornanti della statale 117. Si raggiungerà Mistretta, uno dei centri storici meglio conservati della Provincia di Messina. E’ la testimonianza di una vivacità culturale, politica ed economica che ha prodotto segni tangibili nei suoi monumenti. Le note storiche ricordano che la città appartenne quasi sempre alla corona, e pertanto fu sottratta al vassallaggio feudale, fin quando Filippo IV di Spagna, per sostenere le sue spese militari, decise di vendere la città ad un tal Gregorio Castelli, conte di Gagliano, per la somma di 80.000 scudi. Era l’anno 1632 , che nella storia di Mistretta segna un punto nodale. I cittadini uniti decisero di sostenere l’ingente sforzo economico di riscattare la città. Rimangono memorabili le parole del consigliere Giuseppe Valenti, che nella seduta di votazione esclamò: «Bisogna procurare il prestito a qualunque patto perché devesi stimare la liberà come la propria salute».

L’animo patriottico degli abitanti di Mistretta è nuovamente testimoniato durante la rivoluzione antiborbonica, che porterà all’unità italiana. La città fu, dopo Palermo, la prima che insorse, inalberando la bandiera nazionale, allestita clandestinamente, sulla torre del Castello, la sera dell’otto aprile 1860. Questo Castello è stato il fulcro degli avvenimenti storici che hanno interessato l’esistenza di Mistretta; venne numerose volte distrutto e ricostruito, per essere infine devastato definitivamente da una frana. E’ proprio ai piedi del Castello che si è accentrato Il primo nucleo dell’abitato, sorto in epoca prenormanna, arroccato al costone roccioso che emerge sui declivi della valle, e preannuncia le alte e boscose cime dei Nebrodi.

I toponimi dei quartieri richiamano alla memoria le particolari vicende dei luoghi o degli edifici, generalmente di culto, che ne hanno costituito il punto emergente, come i quartieri di S. Vincenzo, del Carmine, della Madre Rivinusa, del Roccazzo, di S. Nicolò, che si distendono ai piedi del Castello. Il quartiere Purgatorio, ad esempio, prende il nome da una chiesa dedicata alle Anime Purganti. Di fronte vi era la chiesa di S. Antonio Abate, fondata in epoca normanna. Alle sue spalle, quello che un tempo era il quartiere arabo (Rabah). Il tratto di Mistretta circoscritto fra via Libertà, piazza Vittorio Veneto e piazza Dogali, è il "cuore" della città, comprendendo la Chiesa Madre dedicata a Santa Lucia (edificio esistente già nel secolo XII e completato nel Rinascimento), e le chiese di S. Sebastiano e S. Francesco.

Il quartiere S. Caterina, intitolato alla martire alessandrina, annovera diversi rioni: "A Nivera", perché durante le nevicate invernali vi si raccoglieva la neve gelata da mettere in vendita; "L’acqua ramata", per l’acqua ramosa che sgorga dalle sue fontane; "U risittaculu", sede dell’acquedotto comunale; "A maredde", ovvero la strada che porta alla "Santuzza", ossia la chiesetta dedicata appunto “a Maria”. In questo quartiere di S. Caterina, si ammirano palazzi a due o tre piani, con portali, balconi e finestre decorati, dove l’occhio attento può avvertire il passaggio dalle forme barocche allo stile neoclassico. Sono i palazzi della nuova urbanizzazione che si rafforza nel Sei-Settecento e si consolida nell’Ottocento con il quartiere Saddio, che con i suoi dodici palazzi testimonia l’elevato reddito dei residenti appartenenti all’alta borghesia.

Dai quartieri più arroccati, quindi, la città si espande nei luoghi più accessibili. Il tessuto urbano si articola in ampie vie rettilinee. Le strade principali divengono acciottolate; due fasce di basolato rendono più agevole e spedito il transito dei carri che trasportano le merci per le fiere che si tengono fuori dalla porta S. Caterina. Nel quartiere di S. Biagio, troviamo "U munte" e "U palo. I toponimi ricordano "u munte" dei Pegni e "u palo" al quale in epoca saracena, si impiccavano i condannati a morte. Nel quartiere di S. Giovanni la presenza della via Ughetti, ossia "U ghetto", fa ipotizzare la presenza di una comunità ebraica, la stessa tipologia delle abitazioni sembra confermare tale tesi. Nel quartiere di S. Giuseppe è possibile trovare il cosiddetto "ospedale vecchio” opera cinquecentesca del benefico finanziatore Filippo Pizzuto. Gli ospedali fornivano un prezioso servizio sociale, impegnati a curare malanni e pestilenze. La vita materiale emerge nel rione Petra Pilata (pietra viva) del quartiere del SS. Rosario, per la presenza delle pietre del lavatoio utilizzate dalle donne di casa sino alla fine dell’Ottocento. Come dire: la città dell’arte e del quotidiano.

CHIESA MADRE DI MISTRETTA

Chiesa Madre di Mistretta PDF


La Chiesa Madre di Mistretta sorge nel cuore del centro abitato e sporge, lungo il fianco meridionale, sulla piazza Vittorio Veneto. Dedicata a S. Lucia nel XVII secolo, ma di tale intitolazione si ha già notizia in epoca normanna.
La chiesa, nel XVI secolo, aveva un aspetto diverso dall'attuale, con il presbiterio situato dove adesso si trova la porta maggiore. Della chiesa cinquecentesca facevano già parte il Portale settendrionale in marmo del 1494 attribuito a Giorgio da Milano e la torre campanaria di sud-est, sulla quale è incisa la data 1521. L'ingresso principale, col relativo Portale maggiore in pietra scolpita, fu probabilmente scolpito più tardi. Nel 1626 viene aperto un nuovo ingresso laterale con un portale in pietra.
La facciata è dotata di un portale barocco con decorazioni in pietra intagliata, l’interno di forma rinascimentale, elegante con colonne corinzie e grandi arcate ospita un notevole patrimonio artistico: l’ancona marmorea di S. Lucia coi santi Pietro e Paolo e gli Apostoli di Vincenzo Gagini, il Cristo Risorto (1552), la statua della Madonna dei Miracoli (1495), il medaglione in marmo posto nell’altare maggiore raffigurante la Pietà di Marabitti, il maestoso organo e numerose tele del XVII-XVIII sec. realizzate da vari autori fra i quali Giuseppe Tomasi da Tortorici , Antonino Manno, Vincenzo Genovese e Benedetto Berna.
Da attribuire a Giovanni Biffarella il maestoso Coro ligneo del XVIII secolo con i suoi settantuno stalli finemente scolpiti.

S. BENEDETTO "IL MORO ":UN FIORE ESOTICO SBOCCIATO IN SICILIA

 

ARCIDIOCESI DI PALERMO



LETTERA DELL'ARCIVESCOVO NEL IV CENTENARIO DELLA MORTE DEL SANTO


Di S. Benedetto da S. Fratello, detto anche «il Moro», noi abbiamo quasi perso la memoria, anche se il suo corpo è custodito in Palermo, nella Chiesa dei Frati Minori di S. Maria di Gesù. Bene hanno fatto, perciò, i PP. Francescani, in quest'anno in cui cade il quarto centenario della morte del Santo, a farsi promotori di un programma di celebrazioni che, a partire dal prossimo aprile, si articoleranno in varie manifestazioni fino al 1990 per mettere in evidenza la realtà prodigiosa e la personalità del loro santo confratello, nei tratti più caratteristici della sua vita e nel messaggio che da essa giunge, pur dopo tanta di-stanza di tempo, alle nostre generazioni.


I suoi umili natali

Benedetto nacque nel 1526 a S. Fratello (Messina); è quindi figlio di questa nostra terra sicula, ma i suoi genitori, Cristoforo e Diana, provenivano da lontano, essendovi stati condotti, in condizione di schiavitù dall'Africa, forse dall'Etiopia.

La Sicilia era allora un'appendice del Regno di Aragona, con a capo un Viceré strettamente legato alla Corona spagnola. Nell'epoca alla quale ci riferiamo regnava Carlo V, del cui trionfale ingresso a Palermo, nel 1535, rimane come ricordo la Porta Nuova.

Le condizioni del popolo siciliano, se si escludono le classi dominanti, era veramente misera; analfabetismo, indigenza, insicurezza dominavano ed era diffusa anche la presenza di schiavi che, catturati sulle coste dell'Africa, venivano venduti sia in Spagna, sia nei possedimenti spagnoli compresa la Sicilia.

Dovette essere in questo periodo che i genitori di Benedetto furono acquistati da un ricco signore di S. Fratello.

A tale origine africana e al colore della sua pelle si deve l'appellativo «il Moro» con cui venne indicato sia da ragazzo, sia poi da grande, ed è anche questo il motivo per cui si diffusero, in seguito, la devozione ed il culto verso di lui in varie nazioni d'Europa, Spagna e Portogallo, del Sud America, l'Argentina, il Perù, il Venezuela, il Messico, il Brasile, sia anche negli Stati Uniti, divenendo dappertutto il protettore delle popolazioni di colore, invocato come S. Benito da Palermo.

Ora che molti cristiani dell'Africa nera si trovano in mezzo a noi, venuti per cercare lavoro, può essere per loro motivo di particolare interesse e di incoraggiamento scoprire nella nostra città una così significativa e storica espressione della loro presenza: un Santo addirittura, le cui spoglie qui da secoli custodite, vengono ora fatte oggetto di rinnovata venerazione.

Benedetto ricevette una buona educazione cristiana sia dai genitori che dal padrone, un certo Manasseri, che lo volle libero, fin dalla nascita e gli procurò il lavoro impegnandolo a custodire gli animali nei suoi campi.

Ben presto però il giovane pastore si sentì attratto ad una vita di raccoglimento e di preghiera; curò come potè la sua istruzione religiosa; partecipava con frequenza alla celebrazione eucaristica ricevendo la S. Comunione con grande fervore; nutriva una grande devozione verso il Crocifisso, mentre andava crescendo in lui il desiderio di abbandonare quel poco che aveva per consacrarsi interamente al Signore in piena povertà.


La scelta eremitica

L’occasione gli venne data dall’incontro con un certo Girolamo Lanza che, da nobile e ricco che era, aveva lasciato la famiglia e le ricchezze, vivendo con spirito francescano da eremita in Santa Domenica, non lontano da S. Fratello, nei pressi di Caronia. tale scelta di vita praticata dai cristiani fin dai primi secoli (si pensi a S. Antonio e a tutta la letteratura relativa ai Padri del deserto) era ancora in vigore in alcuni luoghi anche in Sicilia: eremiti erano stati S. Calogero, S. Cono, S. Corrado, S. Guglielmo, S. Nicolò Politi e tanti altri di cui non sempre si è serbata distinta memoria.

Benedetto si accompagnò a questo Girolamo abbracciando un austero regime di vita che all'esercizio dei consigli evangelici - castità, povertà e obbedienza - aggiungeva un quarto voto, quello cioè di osservare per tutto l'anno un regime di vita quaresimale di digiuni, di preghiere e di penitenze.

Fin da allora si manifestarono le sue singolari doti di uomo di Dio. Per quella intuizione del soprannaturale che spesso i fedeli hanno, molti di quel contado compresero che Frà Benedetto era uno spirito eletto che viveva in particolare comunione e comunicazione col Signore. E per questo si recavano da lui per raccomandarsi alle sue preghiere, per chiedere consiglio, per esserne consolati nelle immancabili tribolazioni della vita.


La frequenza di tali visite, metteva in crisi la stessa scelta di solitudine propria degli eremiti, e per questo il Lanza si indusse ad abbandonare quel luogo per trasferirsi con i suoi compagni in altri siti:

Platanella, nei pressi di Agrigento; Mancusa, tra Partinico e Carini; Marineo, presso la Madonna della Dayna... ma poi finì per stabilirsi sul Monte Pellegrino, presso Palermo, così chiamato proprio a motivo dei tanti «pellegrini» o eremiti che vi abitavano.


Sul Monte Pellegrino

Era quello il luogo dove anche S. Rosalia era vissuta ai suoi tempi, cioè quattro secoli prima, come eremita, ed il suo corpo, ancora non scoperto (lo sarà poi nel 1625), si trovava sepolto in una di quelle grotte.

In quei luoghi rimaneva ancora viva la memoria della santa fanciulla palermitana che nell'epoca normanna aveva lasciato gli agi della Corte per dedicarsi a Dio, vivendo in solitudine «povera di spirito, purissima di cuore». Anche lei era stata prima in altri luoghi, ma poi era venuta a rifugiarsi sul Monte Pellegrino, da dove poteva mirare ogni giorno la sua città di Palermo e pregare per i suoi bisogni che, allora come ora, non dovevano essere né pochi né agevoli da soddisfare.

Da quel monte che, alto e armonioso si leva verso il cielo, circondato dal mare, Benedetto poteva anch'egli contemplare Palermo e, per quanto non fosse la sua patria, cominciò così ad amarla ed a pregare per i suoi abitanti i quali, peraltro, non furono insensibili all'edificante premura di lui e di quegli austeri penitenti. Era questo, del resto, il loro apostolato: splendere per le loro virtuose azioni come città posta sul monte, come fiaccole sul candelabro; essere lievito, essere profumo... «Come potrebbe dirsi cristiano chi non è così? - si chiede S. Giovanni Crisostomo. - E se il lievito mescolato alla farina non porterà tutto a fermentazione, è davvero lievito? E che dire di un profumo che non investa quanti si accostano? Lo si chiamerà ancora profumo?...». questa salutare influenza spirituale da parte di quegli eremiti e questo richiamo erano vivissimi.

Perciò la gente accorreva per raccomandarsi alle loro preghiere, ed in modo particolare per visitare Frà Benedetto, la cui fama di austerità e di saggezza sempre più spargeva da farlo già chiamare «il santo Moro» tratto singolare questo che dimostra, ad un tempo, tanto la sua capacità ed amabilità nel farsi accettare ed accostare da tutti, quanto anche l’apertura e la mancanza di pregiudizi da parte della gente nei suoi riguardi, sia per il colore della pelle che per la discendenza.

Morto dopo qualche tempo Fra Girolamo Lanza che era stato l'ispiratore di quella esperienza, tutti gli eremiti che vivevano nella zona decisero che solo Benedetto era degno di essere eletto loro Superiore e per quanto egli cercasse di esimersi da tale incarico, adducendo la sua insufficiente cultura e la sua indegnità, pure, con insistenza fu indotto ad accettare e guidare i confratelli nella singolare e non sempre agevole condizione di vivere nella solitudine ma di sottostare ad alcune comuni norme di comportamento.


Una ubbidienza che costa

Così erano passati 17 anni di vita eremitica durante i quali Benedetto, esercitandosi nelle virtù religiose, nel distacco di sé, nello spirito di sacrificio e di ubbidienza, si era reso capace di aderire perfettamente alla volontà di Dio, qualunque essa fosse, una volta che gli si fosse manifestata attraverso uno dei suoi autorevoli canali.

L'occasione venne quando l'esperienza di vita solitaria di questi eremiti, affiliati ai Francescani, già permessa dal Papa Giulio III nel 1550, diede in appresso a Roma motivo di un ripensamento, per cui nel 1562 Pio IV, per mezzo di una lettera del Card. Rodolfo Del Carpio, Protettore dei Frati Minori, emanò una disposizione con la quale veniva proibito il proseguimento di quella vita eremitica e si prescriveva a quanti la praticavano di ritirarsi in un Ordine Regolare Francescano, che poteva essere o quello dei Frati Minori o quello dei Cappuccini. Cessando di essere eremiti ed entrando in uno di questi Ordini Regolari, vi sarebbero stati accolti come veri e propri Religiosi, sottoponendosi ai legittimi Superiori.

Fu esemplare la condotta degli interessati al provvedimento; essi dimostrarono di avere acquisito una buona formazione spirituale ubbidendo prontamente, pur col rammarico di dovere interrompere quella vita che avevano vissuta come una particolare ed ardua vocazione. Ma certamente il merito da essi acquistato per avere ubbidito non fu inferiore a quello che avrebbero conseguito se tale sacrificio non fosse stato loro richiesto.

Forse anche oggi noi dovremmo essere capaci di percepire tali equivalenze, non rimanendo così attaccati a personali giudizi o preferenze e così resistenti a norme che saggiamente disciplinano i diversi stati di vita cristiana e l'esercizio delle diverse attività e compiti dei fedeli nella Chiesa.

Benedetto fu alquanto incerto, dapprima, sulla scelta da fare e volle raccogliersi in preghiera per chiedere alla Vergine Santa, di cui era devotissimo, quale decisione dovesse prendere. Scendendo dal Monte Pellegrino, venne in Cattedrale, in questa nostra Cattedrale palermitana, comprendendo che in essa avrebbe ricevuto i lumi desiderati. Ed infatti, dopo essersi fermato a lungo in preghiera davanti all'altare della Madonna, percepì, per una interiore illuminazione, che la sua scelta doveva cadere nell'Ordine dei Frati Minori, e fu in seguito a ciò che con tutta umiltà si recò al Convento di S. Maria di Gesù, chiedendo di esservi accettato come fratello laico.


A S. Maria di Gesù

Il Convento era stato fondato nel 1426 dal Beato Matteo da Agrigento ed era noto per l’autenticità della vita francescana che vi si conduceva. L’umiltà, la semplicità, la povertà, la castigatezza dei costumi, lo spirito di penitenza, la fervorosa preghiera, ma anche il quotidiano contatto con il popolo ed in particolare con i più deboli e bisognosi, erano i tratti che distinguevano la Comunità della quale Fra Benedetto venne a fare parte.

Ma, come altrove era accaduto, anche qui la sua presenza finì per apparire come quella di un Religioso particolarmente segnato da singolari doni spirituali. Per questo impegnato, all’inizio, nell’umile ufficio di cuoco, il suo spirito di sacrificio e la sua soprannaturale carità lo manifestarono come un autentico «uomo di Dio» ed a lui si cominciò ad accorrere dalla città. Anche se ormai dispensato dal quarto voto del perenne digiuno quaresimale, egli tuttavia ne continuava l'esercizio tanto più motivato, insieme ad altre penitenze, quanto maggiore era il concorso dei fedeli presso di lui e il ricorso alle sue preghiere.

Si realizzava in lui la verità di quello che Maria aveva cantato nel Magnificat, che il Signore cioè, «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili». Frà Benedetto è proprio uno di questi «indigenti sollevati dalla polvere... rialzati dall'immondizia...». (cfr. Ps. 112), che vengono preferiti ai potenti della terra e da essi, anzi, riveriti e consultati per la loro saggezza nel giudicare e prudenza nel consigliare.

Nobili palermitani, Prelati ed anche il Viceré Marcantonio Colonna venivano a trovarlo nel Convento di Santa Maria per bisogni spirituali e materiali che li affliggevano e così tanti altri del popolo, di cui parlano le testimonianze poi raccolte nei processi di beatificazione e che attestano anche i numerosi prodigi attribuiti all'intercessione del «santo Moro» sia in vita che dopo la sua morte. È degno di nota rilevare come Frà Benedetto non si valse mai delle sue conoscenze di persone influenti per accettare o sollecitare favori; anzi, in più di una circostanza, non gradì e non permise che si usassero riguardi a membri del Convento e della sua stessa famiglia che avevano di che render conto alla giustizia. Un esempio, questo, che a noi dice molto, richiamandoci, in tempi in cui ne abbiamo bisogno, al rispetto degli ordinamenti esistenti e alla esclusione di ogni indebita ingerenza ed influenza per determinare in senso favorevole gli avvenimenti in corso.


Superiore del Convento

Di uguale reputazione e venerazione egli godette presso i confratelli del Convento, che edificava non solo per il suo esempio di osservanza religiosa, ma anche per i suoi discorsi e ragionamenti che lasciavano trasparire una dottrina non certo appresa dai libri e che lasciava sorpresi anche i Maestri di Teologia.

«Io so che Benedetto non sapeva né leggere né scrivere – deposero al processo alcuni testimoni – però con tutto questo faceva molti sermoni ai frati e particolarmente ai Novizi, spiegando ad essi molti passi e difficoltà della Sacra Scrittura, con molta chiarezza ed edificazione spirituale... soleva spiegare ai Novizi le lezioni della Sacra Scrittura che erano lette a Mattutino, e in queste lezioni si intratteneva in lunghi discorsi che sembravano ispirati dallo Spirito Santo».

Dei Novizi fu anche nominato Maestro, cioè formatore, e svolse così bene l'ufficio da sembrare che possedesse il dono della scrutazione dei cuori. Nel 1583 pur essendo frate laico fu anche eletto, come già sul Monte Pellegrino, Guardiano, cioè Superiore dei Religiosi, molti dei quali erano Sacerdoti, e seppe così bene guidare con carità e dolcezza tutti i confratelli che molti da altre parti chiedevano di andare a vivere da lui, cosicché fu costretto ad ampliare l'edificio, sopraelevando un secondo piano e costruendo un nuovo braccio del Convento, così come si presenta oggi.

Anche quando si recò ad Agrigento, dove si svolgeva il Capitolo provinciale dei Frati, lo precedeva una tal fama di sanità che fu accolto con calorose manifestazioni di popolo. Eppure, quando terminò il tempo degli uffici per i quali era stato eletto, tornò con grande naturalezza e semplicità alla sua primitiva mansione di cuoco, ben sapendo che il valore e il merito del servizio di Dio non si misurano dall’eccellenza dei compiti che vengono affidati, ma dall’amore e dalla fedeltà con cui vengono esercitati.

Nel Convento di S. Maria di Gesù, tranne un periodo di tre anni che passò in quello di S. Anna nei pressi di Giuliana, trascorse tutta la sua vita di Frate Minore, e lì il suo corpo riposò, deposto in luogo onorifico, dopo qualche anno dalla pia morte che avvenne il 4 aprile 1589.


La fama di santità

La fama di santità che era stata tanto diffusa durante la sua vita, si accrebbe dopo la morte. II suo fu un «sepolcro glorioso» per il continuo accorrere di gente, non solo dalla città di Palermo, ma da ogni altra parte dell'Isola.

Già nel 1592, quando fu eseguita la prima traslazione della tomba esterna alla Sagrestia, il suo corpo fu trovato incorrotto ed odoroso, ed è di quello stesso anno la prima istanza all'allora Arcivescovo di Palermo, Mons. Diego D'Ahedo, perché fosse iniziato il processo di beatificazione.

Nel 1611 un'altra traslazione ebbe luogo, dalla Sagrestia nella Chiesa, e di essa si occuparono tanto il Re di Spagna Filippo III, quanto il Cardinale Gianettino Doria, Presule palermitano, mentre vive istanze al Papa Gregorio XV venivano rivolte negli anni 1621 e 1622 dal successivo Re di Spagna Filippo IV e dal Viceré di Sicilia, sollecitando la beatificazione del Servo di Dio.

Due processi apostolici, l'uno redatto in Palermo e l'altro a S. Fratello, vennero poi rimessi alla S. Congregazione dei Riti intorno al 1627.

È interessante la_risposta che nel luglio di quell’anno dava Urbano VIII con la sua lettera ai palermitani, riconoscendo la grande devozione da essi manifestata per il corpo del Religioso Benedetto da S. Fratello. «La città di Palermo – scrive il Papa – sembra ammaestrare le altre nazioni di quanta stima si debbano tenere i baluardi dell’incolumità pubblica e i monumenti della gloria cristiana». Lo facesse anche adesso!

Assicura poi il processo andrà avanti secondo le norme in vigore, ed aggiunge l’augurio significativo «che codesta città dia i natali a personaggi santi, con tanta facilità, con quanta pietà li venera…».

La municipalità di Palermo – detta allora «il Senato - rompendo gli indugi, si induceva nel 1652 ad emettere un solenne Decreto con il quale rilevando «che la fama di santità ammirabile del siciliano Benedetto da S. Fratello si è sparsa oltre i confini di tutta la città» lo eleggeva e nominava «particolare intercessore», chiamandolo già, per conto suo, «Beato Patrono» ed ordinando feste che si celebrassero ogni anno nella Chiesa di S. Maria di Gesù.




La Canonizzazione

Nel 1713 nuove istanze per la Beatificazione ufficiale vennero rivolte alla S. Sede sia dal Senato palermitano che dallo stesso Arcivescovo, Giuseppe Melendez, e così ripresosi il processo si giungeva nel 1743 all'approvazione del culto e nel 1776 al riconoscimento dell'eroicità delle virtù. Rimaneva la prova dei due richiesti miracoli, verificati i quali, con Bolla di Papa Pio VII del 23 giugno 1807, veniva proclamata la Canonizzazione.

Nel documento, com'è d'uso, venivano indicate le principali caratteristiche di quella santa vita e ci può servire il notare che oltre agli abbondanti riferimenti alle virtù religiose praticate, alle penitenze, all'umiltà, alla prudenza, in particolare rilievo viene messa la sua fede e devozione eucaristica: «Non desiderava nient’altro se non considerare e contemplare argomenti celesti e con ogni scrupolo evitare qualsiasi offesa verso Dio, anche la più piccola. spesso, quasi ogni giorno, si confessava e si comunicava: lunga era la preparazione al banchetto divino e più lungo ancora il ringraziamento, dopo averlo gustato…».

Da questo amore di Dio vien fatto derivare «il suo fervido amore verso il prossimo, del quale desiderava l’eterna salvezza… Con sollecitudine e senza difficoltà riceveva tutti quelli che andavano da lui per chiedergli consigli, anche quando stava male, e a ognuno elargiva opportuni consigli e rimedi. Inoltre spesso visitava i carcerati e gli infermi, offrendo loro tutti i servizi e le opere di carità, fornendo anche qualche aiuto ed esortandoli alla pazienza e a riporre in Dio la loro speranza... Egli quando fu eletto Superiore del Convento di Palermo volle soprattutto che il portinaio non respingesse alcun povero».

Le ricorrenti pesti e carestie di quell'epoca fornivano occasioni particolarmente impellenti di soccorrevole intervento.

La Canonizzazione avveniva insieme a quelle di S. Francesco Caracciolo, di S. Angela Merici, di S. Coletta Boilet e di S. Giacinta Marescotti. La data della memoria di S. Benedetto da S. Fratello veniva fissata per il 4 aprile, come è ancora oggi.

Può esser interessante anche notare che S. Benedetto «il Moro» è il primo santo siciliano per il quale si sia svolto un regolare processo canonico di Beatificazione e Canonizzazione.


Un messaggio per l'oggi

Quale significato può avere la celebrazione di questo quarto Centenario? Quella, penso, di mostrare come nonostante il passare del tempo e il mutare dei tempi, le autentiche qualità e virtù di una persona santa vengono sempre riconosciute: l'oro rimane oro; l'impiego di una vita vissuta nella semplicità, nell’amore e con impegno di rendersi sempre utile agli altri rimane un valore nel quale si può sempre credere e fare assegnamento.

E ci conforta anche pensare e sapere che, se tante persone ci sono nel mondo che fanno parlare di sé per le loro malefatte, non minori di numero sono quelli che nel silenzio operano il bene e non chiederanno mai nessun riconoscimento per i loro servizi resi all’umanità.

Questa nostra Palermo ha bisogno di tali richiami, di tali esempi e di tale speranza. L’augurio di Papa Urbano VIII attende sempre di compiersi perché alla città non manchino mai uomini di buona volontà che nel nome di Cristo si facciano sostegno sei deboli e promotori della giustizia e della pace. I tempi di oggi sono certamente diversi da quelli in cui visse S. Benedetto, ma taluni problemi materiali e molti spirituali e morali sono sempre gli stessi e forse anche aggravati. La semplicità del Santo e la sua bontà ci mostrano la via attraverso la quale è sempre possibile incoraggiare i buoni e dare sollievo ai sofferenti.

La presenza, poi, di tanti stranieri, dì colore, venuti dalle diverse ed anche remote regioni della terra a vivere e cercare lavoro nella nostra patria, ci impegna ad essere così accoglienti come la Sicilia e Palermo lo furono per Benedetto.

È in tal senso che auspichiamo possa aver luogo, proprio in una Casa francescana, la progettata apertura di un Centro di prima accoglienza ed assistenza per lavoratori forestieri, i quali sentano di essere rispettati, considerati ed amati da questa città, per le cui strade un giorno si aggirò, venerato e benefico, un umile fraticello nero: Benedetto il Moro!

Sia lui ad ottenere per tutti le più ampie celesti benedizioni.

domenica 3 febbraio 2013

I DIAVOLI DELLA ZISA

La fama di Guglielmo II di "grande costruttore" di mirabili opere, è dovuta, non solo per il Duomo di Monreale, ma anche per la Zisa, che egli ultimò, avendola iniziata suo padre Guglielmo I. Il palazzo della Zisa già nel nome è opera bellissima, infatti Zisa viene dall’arabo azizah, che vuol dire, appunto, splendido.
Naturalmente è legata alla Zisa una leggenda popolare.
Nella città di palermo esiste La Zisa, un palazzo che è un castello. Dall'ingresso, con oro e pitture, si giunge al centro, dove si trova una bellissima fontana di marmo con una cascata d’acqua fresca e incontaminata che rasserena l'animo. La Zisa è coperta da un incantesimo, che vuole che vi sia nascosto al suo interno un favoloso tesoro. A proteggerlo sono chiamati i diavoli dipinti nel bellissimo ingresso, che impediscono di trovarlo ai cristiani. Il giorno del 25 marzo, giorno dell’Annunciata, guardando attentamente la pittura, si possono vedere i diavoli muovere la coda e fare smorfie. Essi sono talmente tanti nel dipinto che non si possono contare, come non si può contare il tesoro che essi custodiscono. Quando un coraggioso troverà la soluzione per «sbancare» il tesoro misterioso, allora anche Palermo non sarà più povera.
Il Pitrè, a proposito del fatto che effettivamente i diavoli non si possono contare, addebita la cosa al modo come essi sono stati dipinti. Poichè alcune figure sono molto piccole, e alcune altre non intere, ne deriva che il conto è molto difficoltoso, tanto da non tornare mai.

La figura di Guglielmo II è ricordata, comunque, oltre che per la cattedrale di Monreale e la Zisa, anche per le buone leggi emanate (celebre quella che puniva l’adulterio) e la sua tolleranza, anche religiosa. Celebri le sue parole: «Ognuno preghi il Dio in cui crede», espressione modernissima e straordinaria per i tempi. Perfino Dante, nel ventesimo canto del Paradiso, lo definisce «il giusto rege», e innumerevoli sono le citazioni positive su di lui nella poesia dotta siciliana.
 

RUGGERO UOMO DEL DESTINO

Ruggero è il personaggio misterioso legato alla leggenda del nome Furnari, paese in provincia di Messina. Ancora oggi lo stemma del comune mostra un levriero in campo rosso, col motto Finché venga.Durante la campagna militare del conte Rugero, fu ospitato in incognito nella masseria di un certo Antonio Furnari da Tripi (comune anch'esso della provincia di Messina).
Al momento di ripartire, il misterioso personaggio affidò al Furnari un suo prezioso levriero che era ammalato. Gli promise che lo avrebbe ripreso quando sarebbe tornato entro l'anno alla masseria, e di ciò l'avrebbe ricompensato. L'uomo che non era diffidente, curò con molto amore il cane, anche se i mesi passavano, tra la derisione dei suoi amici.
In effetti Ruggero, ultimata la conquista della Sicilia, tornò dal brav'uomo che lo aveva aspettato fiducioso e lo nominò signore di quella contrada della provincia di Messina, che a tutt'oggi si chiama Furnari.
Sempre Ruggero, eroe pluricitato dalle leggende normanne, è legato alla frazione di Santa Maria la Strada, che fa parte del comune di Giarre, in provincia di Catania. La frazione deve il nome ad una piccola chiesa, così denominata poichè è posta lungo la strada (oggi la statale 114) che collegava Catania a Messina. Nel borgo etneo i saraceni attendevano in forze l'arrivo dei normanni. Quando le truppe di Ruggero arrivarono nella località nessuno però li attendeva: al loro arrivo gli arabi si erano ritirati lasciandoli padroni della zona, senza colpo ferire. Fu in questa circostanza che Ruggero fece erigere la chiesa ed un pozzo, noto come «il pozzo di Ruggero».