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sabato 23 febbraio 2013

S. BENEDETTO "IL MORO ":UN FIORE ESOTICO SBOCCIATO IN SICILIA

 

ARCIDIOCESI DI PALERMO



LETTERA DELL'ARCIVESCOVO NEL IV CENTENARIO DELLA MORTE DEL SANTO


Di S. Benedetto da S. Fratello, detto anche «il Moro», noi abbiamo quasi perso la memoria, anche se il suo corpo è custodito in Palermo, nella Chiesa dei Frati Minori di S. Maria di Gesù. Bene hanno fatto, perciò, i PP. Francescani, in quest'anno in cui cade il quarto centenario della morte del Santo, a farsi promotori di un programma di celebrazioni che, a partire dal prossimo aprile, si articoleranno in varie manifestazioni fino al 1990 per mettere in evidenza la realtà prodigiosa e la personalità del loro santo confratello, nei tratti più caratteristici della sua vita e nel messaggio che da essa giunge, pur dopo tanta di-stanza di tempo, alle nostre generazioni.


I suoi umili natali

Benedetto nacque nel 1526 a S. Fratello (Messina); è quindi figlio di questa nostra terra sicula, ma i suoi genitori, Cristoforo e Diana, provenivano da lontano, essendovi stati condotti, in condizione di schiavitù dall'Africa, forse dall'Etiopia.

La Sicilia era allora un'appendice del Regno di Aragona, con a capo un Viceré strettamente legato alla Corona spagnola. Nell'epoca alla quale ci riferiamo regnava Carlo V, del cui trionfale ingresso a Palermo, nel 1535, rimane come ricordo la Porta Nuova.

Le condizioni del popolo siciliano, se si escludono le classi dominanti, era veramente misera; analfabetismo, indigenza, insicurezza dominavano ed era diffusa anche la presenza di schiavi che, catturati sulle coste dell'Africa, venivano venduti sia in Spagna, sia nei possedimenti spagnoli compresa la Sicilia.

Dovette essere in questo periodo che i genitori di Benedetto furono acquistati da un ricco signore di S. Fratello.

A tale origine africana e al colore della sua pelle si deve l'appellativo «il Moro» con cui venne indicato sia da ragazzo, sia poi da grande, ed è anche questo il motivo per cui si diffusero, in seguito, la devozione ed il culto verso di lui in varie nazioni d'Europa, Spagna e Portogallo, del Sud America, l'Argentina, il Perù, il Venezuela, il Messico, il Brasile, sia anche negli Stati Uniti, divenendo dappertutto il protettore delle popolazioni di colore, invocato come S. Benito da Palermo.

Ora che molti cristiani dell'Africa nera si trovano in mezzo a noi, venuti per cercare lavoro, può essere per loro motivo di particolare interesse e di incoraggiamento scoprire nella nostra città una così significativa e storica espressione della loro presenza: un Santo addirittura, le cui spoglie qui da secoli custodite, vengono ora fatte oggetto di rinnovata venerazione.

Benedetto ricevette una buona educazione cristiana sia dai genitori che dal padrone, un certo Manasseri, che lo volle libero, fin dalla nascita e gli procurò il lavoro impegnandolo a custodire gli animali nei suoi campi.

Ben presto però il giovane pastore si sentì attratto ad una vita di raccoglimento e di preghiera; curò come potè la sua istruzione religiosa; partecipava con frequenza alla celebrazione eucaristica ricevendo la S. Comunione con grande fervore; nutriva una grande devozione verso il Crocifisso, mentre andava crescendo in lui il desiderio di abbandonare quel poco che aveva per consacrarsi interamente al Signore in piena povertà.


La scelta eremitica

L’occasione gli venne data dall’incontro con un certo Girolamo Lanza che, da nobile e ricco che era, aveva lasciato la famiglia e le ricchezze, vivendo con spirito francescano da eremita in Santa Domenica, non lontano da S. Fratello, nei pressi di Caronia. tale scelta di vita praticata dai cristiani fin dai primi secoli (si pensi a S. Antonio e a tutta la letteratura relativa ai Padri del deserto) era ancora in vigore in alcuni luoghi anche in Sicilia: eremiti erano stati S. Calogero, S. Cono, S. Corrado, S. Guglielmo, S. Nicolò Politi e tanti altri di cui non sempre si è serbata distinta memoria.

Benedetto si accompagnò a questo Girolamo abbracciando un austero regime di vita che all'esercizio dei consigli evangelici - castità, povertà e obbedienza - aggiungeva un quarto voto, quello cioè di osservare per tutto l'anno un regime di vita quaresimale di digiuni, di preghiere e di penitenze.

Fin da allora si manifestarono le sue singolari doti di uomo di Dio. Per quella intuizione del soprannaturale che spesso i fedeli hanno, molti di quel contado compresero che Frà Benedetto era uno spirito eletto che viveva in particolare comunione e comunicazione col Signore. E per questo si recavano da lui per raccomandarsi alle sue preghiere, per chiedere consiglio, per esserne consolati nelle immancabili tribolazioni della vita.


La frequenza di tali visite, metteva in crisi la stessa scelta di solitudine propria degli eremiti, e per questo il Lanza si indusse ad abbandonare quel luogo per trasferirsi con i suoi compagni in altri siti:

Platanella, nei pressi di Agrigento; Mancusa, tra Partinico e Carini; Marineo, presso la Madonna della Dayna... ma poi finì per stabilirsi sul Monte Pellegrino, presso Palermo, così chiamato proprio a motivo dei tanti «pellegrini» o eremiti che vi abitavano.


Sul Monte Pellegrino

Era quello il luogo dove anche S. Rosalia era vissuta ai suoi tempi, cioè quattro secoli prima, come eremita, ed il suo corpo, ancora non scoperto (lo sarà poi nel 1625), si trovava sepolto in una di quelle grotte.

In quei luoghi rimaneva ancora viva la memoria della santa fanciulla palermitana che nell'epoca normanna aveva lasciato gli agi della Corte per dedicarsi a Dio, vivendo in solitudine «povera di spirito, purissima di cuore». Anche lei era stata prima in altri luoghi, ma poi era venuta a rifugiarsi sul Monte Pellegrino, da dove poteva mirare ogni giorno la sua città di Palermo e pregare per i suoi bisogni che, allora come ora, non dovevano essere né pochi né agevoli da soddisfare.

Da quel monte che, alto e armonioso si leva verso il cielo, circondato dal mare, Benedetto poteva anch'egli contemplare Palermo e, per quanto non fosse la sua patria, cominciò così ad amarla ed a pregare per i suoi abitanti i quali, peraltro, non furono insensibili all'edificante premura di lui e di quegli austeri penitenti. Era questo, del resto, il loro apostolato: splendere per le loro virtuose azioni come città posta sul monte, come fiaccole sul candelabro; essere lievito, essere profumo... «Come potrebbe dirsi cristiano chi non è così? - si chiede S. Giovanni Crisostomo. - E se il lievito mescolato alla farina non porterà tutto a fermentazione, è davvero lievito? E che dire di un profumo che non investa quanti si accostano? Lo si chiamerà ancora profumo?...». questa salutare influenza spirituale da parte di quegli eremiti e questo richiamo erano vivissimi.

Perciò la gente accorreva per raccomandarsi alle loro preghiere, ed in modo particolare per visitare Frà Benedetto, la cui fama di austerità e di saggezza sempre più spargeva da farlo già chiamare «il santo Moro» tratto singolare questo che dimostra, ad un tempo, tanto la sua capacità ed amabilità nel farsi accettare ed accostare da tutti, quanto anche l’apertura e la mancanza di pregiudizi da parte della gente nei suoi riguardi, sia per il colore della pelle che per la discendenza.

Morto dopo qualche tempo Fra Girolamo Lanza che era stato l'ispiratore di quella esperienza, tutti gli eremiti che vivevano nella zona decisero che solo Benedetto era degno di essere eletto loro Superiore e per quanto egli cercasse di esimersi da tale incarico, adducendo la sua insufficiente cultura e la sua indegnità, pure, con insistenza fu indotto ad accettare e guidare i confratelli nella singolare e non sempre agevole condizione di vivere nella solitudine ma di sottostare ad alcune comuni norme di comportamento.


Una ubbidienza che costa

Così erano passati 17 anni di vita eremitica durante i quali Benedetto, esercitandosi nelle virtù religiose, nel distacco di sé, nello spirito di sacrificio e di ubbidienza, si era reso capace di aderire perfettamente alla volontà di Dio, qualunque essa fosse, una volta che gli si fosse manifestata attraverso uno dei suoi autorevoli canali.

L'occasione venne quando l'esperienza di vita solitaria di questi eremiti, affiliati ai Francescani, già permessa dal Papa Giulio III nel 1550, diede in appresso a Roma motivo di un ripensamento, per cui nel 1562 Pio IV, per mezzo di una lettera del Card. Rodolfo Del Carpio, Protettore dei Frati Minori, emanò una disposizione con la quale veniva proibito il proseguimento di quella vita eremitica e si prescriveva a quanti la praticavano di ritirarsi in un Ordine Regolare Francescano, che poteva essere o quello dei Frati Minori o quello dei Cappuccini. Cessando di essere eremiti ed entrando in uno di questi Ordini Regolari, vi sarebbero stati accolti come veri e propri Religiosi, sottoponendosi ai legittimi Superiori.

Fu esemplare la condotta degli interessati al provvedimento; essi dimostrarono di avere acquisito una buona formazione spirituale ubbidendo prontamente, pur col rammarico di dovere interrompere quella vita che avevano vissuta come una particolare ed ardua vocazione. Ma certamente il merito da essi acquistato per avere ubbidito non fu inferiore a quello che avrebbero conseguito se tale sacrificio non fosse stato loro richiesto.

Forse anche oggi noi dovremmo essere capaci di percepire tali equivalenze, non rimanendo così attaccati a personali giudizi o preferenze e così resistenti a norme che saggiamente disciplinano i diversi stati di vita cristiana e l'esercizio delle diverse attività e compiti dei fedeli nella Chiesa.

Benedetto fu alquanto incerto, dapprima, sulla scelta da fare e volle raccogliersi in preghiera per chiedere alla Vergine Santa, di cui era devotissimo, quale decisione dovesse prendere. Scendendo dal Monte Pellegrino, venne in Cattedrale, in questa nostra Cattedrale palermitana, comprendendo che in essa avrebbe ricevuto i lumi desiderati. Ed infatti, dopo essersi fermato a lungo in preghiera davanti all'altare della Madonna, percepì, per una interiore illuminazione, che la sua scelta doveva cadere nell'Ordine dei Frati Minori, e fu in seguito a ciò che con tutta umiltà si recò al Convento di S. Maria di Gesù, chiedendo di esservi accettato come fratello laico.


A S. Maria di Gesù

Il Convento era stato fondato nel 1426 dal Beato Matteo da Agrigento ed era noto per l’autenticità della vita francescana che vi si conduceva. L’umiltà, la semplicità, la povertà, la castigatezza dei costumi, lo spirito di penitenza, la fervorosa preghiera, ma anche il quotidiano contatto con il popolo ed in particolare con i più deboli e bisognosi, erano i tratti che distinguevano la Comunità della quale Fra Benedetto venne a fare parte.

Ma, come altrove era accaduto, anche qui la sua presenza finì per apparire come quella di un Religioso particolarmente segnato da singolari doni spirituali. Per questo impegnato, all’inizio, nell’umile ufficio di cuoco, il suo spirito di sacrificio e la sua soprannaturale carità lo manifestarono come un autentico «uomo di Dio» ed a lui si cominciò ad accorrere dalla città. Anche se ormai dispensato dal quarto voto del perenne digiuno quaresimale, egli tuttavia ne continuava l'esercizio tanto più motivato, insieme ad altre penitenze, quanto maggiore era il concorso dei fedeli presso di lui e il ricorso alle sue preghiere.

Si realizzava in lui la verità di quello che Maria aveva cantato nel Magnificat, che il Signore cioè, «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili». Frà Benedetto è proprio uno di questi «indigenti sollevati dalla polvere... rialzati dall'immondizia...». (cfr. Ps. 112), che vengono preferiti ai potenti della terra e da essi, anzi, riveriti e consultati per la loro saggezza nel giudicare e prudenza nel consigliare.

Nobili palermitani, Prelati ed anche il Viceré Marcantonio Colonna venivano a trovarlo nel Convento di Santa Maria per bisogni spirituali e materiali che li affliggevano e così tanti altri del popolo, di cui parlano le testimonianze poi raccolte nei processi di beatificazione e che attestano anche i numerosi prodigi attribuiti all'intercessione del «santo Moro» sia in vita che dopo la sua morte. È degno di nota rilevare come Frà Benedetto non si valse mai delle sue conoscenze di persone influenti per accettare o sollecitare favori; anzi, in più di una circostanza, non gradì e non permise che si usassero riguardi a membri del Convento e della sua stessa famiglia che avevano di che render conto alla giustizia. Un esempio, questo, che a noi dice molto, richiamandoci, in tempi in cui ne abbiamo bisogno, al rispetto degli ordinamenti esistenti e alla esclusione di ogni indebita ingerenza ed influenza per determinare in senso favorevole gli avvenimenti in corso.


Superiore del Convento

Di uguale reputazione e venerazione egli godette presso i confratelli del Convento, che edificava non solo per il suo esempio di osservanza religiosa, ma anche per i suoi discorsi e ragionamenti che lasciavano trasparire una dottrina non certo appresa dai libri e che lasciava sorpresi anche i Maestri di Teologia.

«Io so che Benedetto non sapeva né leggere né scrivere – deposero al processo alcuni testimoni – però con tutto questo faceva molti sermoni ai frati e particolarmente ai Novizi, spiegando ad essi molti passi e difficoltà della Sacra Scrittura, con molta chiarezza ed edificazione spirituale... soleva spiegare ai Novizi le lezioni della Sacra Scrittura che erano lette a Mattutino, e in queste lezioni si intratteneva in lunghi discorsi che sembravano ispirati dallo Spirito Santo».

Dei Novizi fu anche nominato Maestro, cioè formatore, e svolse così bene l'ufficio da sembrare che possedesse il dono della scrutazione dei cuori. Nel 1583 pur essendo frate laico fu anche eletto, come già sul Monte Pellegrino, Guardiano, cioè Superiore dei Religiosi, molti dei quali erano Sacerdoti, e seppe così bene guidare con carità e dolcezza tutti i confratelli che molti da altre parti chiedevano di andare a vivere da lui, cosicché fu costretto ad ampliare l'edificio, sopraelevando un secondo piano e costruendo un nuovo braccio del Convento, così come si presenta oggi.

Anche quando si recò ad Agrigento, dove si svolgeva il Capitolo provinciale dei Frati, lo precedeva una tal fama di sanità che fu accolto con calorose manifestazioni di popolo. Eppure, quando terminò il tempo degli uffici per i quali era stato eletto, tornò con grande naturalezza e semplicità alla sua primitiva mansione di cuoco, ben sapendo che il valore e il merito del servizio di Dio non si misurano dall’eccellenza dei compiti che vengono affidati, ma dall’amore e dalla fedeltà con cui vengono esercitati.

Nel Convento di S. Maria di Gesù, tranne un periodo di tre anni che passò in quello di S. Anna nei pressi di Giuliana, trascorse tutta la sua vita di Frate Minore, e lì il suo corpo riposò, deposto in luogo onorifico, dopo qualche anno dalla pia morte che avvenne il 4 aprile 1589.


La fama di santità

La fama di santità che era stata tanto diffusa durante la sua vita, si accrebbe dopo la morte. II suo fu un «sepolcro glorioso» per il continuo accorrere di gente, non solo dalla città di Palermo, ma da ogni altra parte dell'Isola.

Già nel 1592, quando fu eseguita la prima traslazione della tomba esterna alla Sagrestia, il suo corpo fu trovato incorrotto ed odoroso, ed è di quello stesso anno la prima istanza all'allora Arcivescovo di Palermo, Mons. Diego D'Ahedo, perché fosse iniziato il processo di beatificazione.

Nel 1611 un'altra traslazione ebbe luogo, dalla Sagrestia nella Chiesa, e di essa si occuparono tanto il Re di Spagna Filippo III, quanto il Cardinale Gianettino Doria, Presule palermitano, mentre vive istanze al Papa Gregorio XV venivano rivolte negli anni 1621 e 1622 dal successivo Re di Spagna Filippo IV e dal Viceré di Sicilia, sollecitando la beatificazione del Servo di Dio.

Due processi apostolici, l'uno redatto in Palermo e l'altro a S. Fratello, vennero poi rimessi alla S. Congregazione dei Riti intorno al 1627.

È interessante la_risposta che nel luglio di quell’anno dava Urbano VIII con la sua lettera ai palermitani, riconoscendo la grande devozione da essi manifestata per il corpo del Religioso Benedetto da S. Fratello. «La città di Palermo – scrive il Papa – sembra ammaestrare le altre nazioni di quanta stima si debbano tenere i baluardi dell’incolumità pubblica e i monumenti della gloria cristiana». Lo facesse anche adesso!

Assicura poi il processo andrà avanti secondo le norme in vigore, ed aggiunge l’augurio significativo «che codesta città dia i natali a personaggi santi, con tanta facilità, con quanta pietà li venera…».

La municipalità di Palermo – detta allora «il Senato - rompendo gli indugi, si induceva nel 1652 ad emettere un solenne Decreto con il quale rilevando «che la fama di santità ammirabile del siciliano Benedetto da S. Fratello si è sparsa oltre i confini di tutta la città» lo eleggeva e nominava «particolare intercessore», chiamandolo già, per conto suo, «Beato Patrono» ed ordinando feste che si celebrassero ogni anno nella Chiesa di S. Maria di Gesù.




La Canonizzazione

Nel 1713 nuove istanze per la Beatificazione ufficiale vennero rivolte alla S. Sede sia dal Senato palermitano che dallo stesso Arcivescovo, Giuseppe Melendez, e così ripresosi il processo si giungeva nel 1743 all'approvazione del culto e nel 1776 al riconoscimento dell'eroicità delle virtù. Rimaneva la prova dei due richiesti miracoli, verificati i quali, con Bolla di Papa Pio VII del 23 giugno 1807, veniva proclamata la Canonizzazione.

Nel documento, com'è d'uso, venivano indicate le principali caratteristiche di quella santa vita e ci può servire il notare che oltre agli abbondanti riferimenti alle virtù religiose praticate, alle penitenze, all'umiltà, alla prudenza, in particolare rilievo viene messa la sua fede e devozione eucaristica: «Non desiderava nient’altro se non considerare e contemplare argomenti celesti e con ogni scrupolo evitare qualsiasi offesa verso Dio, anche la più piccola. spesso, quasi ogni giorno, si confessava e si comunicava: lunga era la preparazione al banchetto divino e più lungo ancora il ringraziamento, dopo averlo gustato…».

Da questo amore di Dio vien fatto derivare «il suo fervido amore verso il prossimo, del quale desiderava l’eterna salvezza… Con sollecitudine e senza difficoltà riceveva tutti quelli che andavano da lui per chiedergli consigli, anche quando stava male, e a ognuno elargiva opportuni consigli e rimedi. Inoltre spesso visitava i carcerati e gli infermi, offrendo loro tutti i servizi e le opere di carità, fornendo anche qualche aiuto ed esortandoli alla pazienza e a riporre in Dio la loro speranza... Egli quando fu eletto Superiore del Convento di Palermo volle soprattutto che il portinaio non respingesse alcun povero».

Le ricorrenti pesti e carestie di quell'epoca fornivano occasioni particolarmente impellenti di soccorrevole intervento.

La Canonizzazione avveniva insieme a quelle di S. Francesco Caracciolo, di S. Angela Merici, di S. Coletta Boilet e di S. Giacinta Marescotti. La data della memoria di S. Benedetto da S. Fratello veniva fissata per il 4 aprile, come è ancora oggi.

Può esser interessante anche notare che S. Benedetto «il Moro» è il primo santo siciliano per il quale si sia svolto un regolare processo canonico di Beatificazione e Canonizzazione.


Un messaggio per l'oggi

Quale significato può avere la celebrazione di questo quarto Centenario? Quella, penso, di mostrare come nonostante il passare del tempo e il mutare dei tempi, le autentiche qualità e virtù di una persona santa vengono sempre riconosciute: l'oro rimane oro; l'impiego di una vita vissuta nella semplicità, nell’amore e con impegno di rendersi sempre utile agli altri rimane un valore nel quale si può sempre credere e fare assegnamento.

E ci conforta anche pensare e sapere che, se tante persone ci sono nel mondo che fanno parlare di sé per le loro malefatte, non minori di numero sono quelli che nel silenzio operano il bene e non chiederanno mai nessun riconoscimento per i loro servizi resi all’umanità.

Questa nostra Palermo ha bisogno di tali richiami, di tali esempi e di tale speranza. L’augurio di Papa Urbano VIII attende sempre di compiersi perché alla città non manchino mai uomini di buona volontà che nel nome di Cristo si facciano sostegno sei deboli e promotori della giustizia e della pace. I tempi di oggi sono certamente diversi da quelli in cui visse S. Benedetto, ma taluni problemi materiali e molti spirituali e morali sono sempre gli stessi e forse anche aggravati. La semplicità del Santo e la sua bontà ci mostrano la via attraverso la quale è sempre possibile incoraggiare i buoni e dare sollievo ai sofferenti.

La presenza, poi, di tanti stranieri, dì colore, venuti dalle diverse ed anche remote regioni della terra a vivere e cercare lavoro nella nostra patria, ci impegna ad essere così accoglienti come la Sicilia e Palermo lo furono per Benedetto.

È in tal senso che auspichiamo possa aver luogo, proprio in una Casa francescana, la progettata apertura di un Centro di prima accoglienza ed assistenza per lavoratori forestieri, i quali sentano di essere rispettati, considerati ed amati da questa città, per le cui strade un giorno si aggirò, venerato e benefico, un umile fraticello nero: Benedetto il Moro!

Sia lui ad ottenere per tutti le più ampie celesti benedizioni.

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